Origin di Ava DuVernay (Concorso)

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L’incipit di Origin di Ava DuVernay,  la figura di un giovane nero che cammina di notte per un quartiere presumibilmente di bianchi, in un’ atmosfera di montante minaccia proveniente da un auto che lo sta pedinando, ricorda subito l’overture di un altro film che si calava nel buio della questione razziale dell’America contemporanea, trasfigurandola però  in un horror quasi metafisico: Scappa-Get out di Jordan Peele sceglieva infatti la più originale e suggestiva dimensione di una dark comedy di terrorizzanti psicosi su un gruppo di bianchi che catturano giovani afroamericani e si appropriano dei loro corpi e delle loro menti.

Dalla rappresentazione di partenza di una situazione simile, la DuVernay (che peraltro cita apertamente l’aggressione e l’omicidio realmente avvenuto del diciassettenne Trayvon Martin, utilizzando le autentiche registrazioni della chiamata  che il suo assassino, Geroge Zimmerman,  fece alla polizia, documentando in presa diretta la brutale esecuzione di quello che lui riteneva un potenziale ladro o spacciatore)  prosegue il racconto in una forma più stratificata e altrettanto complessa. Va detto subito che il materiale di partenza è il libro Caste: The Origin of Our Discontens della scrittrice premio Pulitzer Isabel Wilkerson, uno studio che intende dimostrare la comune struttura sulla quale nel corso del tempo si è costruito il sistematico asservimento, lo sterminio e la tortura perpetrati contro i neri negli Stati Uniti, contro gli ebrei sotto la Germania nazista e contro i dalit, quella parte della popolazione considerata inferiore nella rigidissima classificazione della società indiana.

La domanda che si pone Isabelle, a partire dalla vicenda di  Trayvon Martin, è quella di non ridurre le ragioni di qualsiasi evento discriminatorio al generico concetto di razzismo e di razza, individuando appunto un nucleo più profondo, radicato e secolare: la casta dunque, la suddivisione piramidale in gruppi differenziati in base al potere economico, politico e culturale, che  per mantenere il controllo e la supremazia tende a tenere separati ed emarginati  gli appartenenti ai livelli subalterni. Il film però è tutt’altro che la ricostruzione di un reportage a tra passato e presente (intenzione della Wilkerson è dimostrare il continuum della presenza di alcuni comportamenti nella contemporaneità), ma si prende l’ambizione di muoversi su un doppio piano narrativo e molteplici livelli spazio-temporali: c’è cosi l’Isabelle privata , il rapporto con il premuroso marito bianco (non un dettaglio visto che le sue tesi si concentrano proprio sull’endogamia, ovvero l’obbligo di sposarsi solo tra appartenenti allo stesso gruppo, come pilastro dello status casata) e con la calda e amorevole madre anziana e morente, che tra l’altro con una battuta in cui sostiene che l’uccisione del ragazzo sia dovuta al fatto ché si trovava nel quartiere sbagliato al momento sbagliato,  fa capire come che quel codice non scritto di proibizioni e divieti sia stato introiettato e passivamente subito e accettato dagli stessi perseguitati; c’è invece l’Isabelle ricercatrice itinerante nelle parole e nei luoghi, l’oratrice pubblica, l’intellettuale afroamericana espressione di un ceto medio-alto progressista e privilegiato che si cala , anima e corpo, nella marginalità in cui si agitano indistinti e inascoltati esseri umani privati della loro soggettività e autodeterminazione.

Succede però che questi due aspetti facciano un corto circuito o, meglio, vengano fatte cortocircuitare dalla regista, generando gli aspetti problematici e discutibili di una messa in scena che accumula ma non sembra trovare né una robusta centratura né una spiazzante e inedita apertura , non un punto esclamativo ma neanche uno interrogativo come invece la materia incandescente su cui pone ragioni e sentimenti esigerebbe. La vita di Isabelle, quella più affettiva e identitaria, due elementi che vengono messi in stretta correlazione, crolla con la morte della madre, con quella improvvisa del marito e per malattia della cugina alla quale era legata da un rapporto sororale, mentre  parallelamente la sua inziale incerta teoria di affiliazione tra manifestazioni di intolleranza e discriminazioni in apparenza lontane tra di loro trova argomentazioni valide e plausibili.

Ma sul piano formale c’è una sorta di fagocitazione melodrammatica ed enfatica da una parte (con tanto di immagine dalla simbologia kitsch, un letto di foglie morte sul quale Isabelle consuma la sua depressione post lutto) e dimostrativa e didascalica dall’altra;  così ogni pur suggestivo momento nella ricostruzione di flash back delle storie nella Storia, come l’apparizione di un uomo tra la folla che rimane immobile  in mezzo ad una carnale marea di hitleriane braccia tese o il corpo raggelato e spaurito di un ragazzino nero sopra un materassino portato in giro, anche in senso figurato, per una piscina svuotata ma invasa dagli sguardi dei bianchi ( sgomenti quelli dei bambini, disprezzanti quelli degli adulti) è immediatamente spiegato, sottolineato, appesantito da metafore semplicistiche che penalizzano l’indiscutibile capacità della cineasta di (ri)creare scene ispirate a “fatti realmente accaduti”  con un impatto fecondo tra realismo e spettacolarità.

Al di là della già tante questioni che attraversa, ce n’è un’altra però che riguarda Origin, e questa peculiarmente collegata alla sua natura cinematografica: in un ‘epoca in cui il documento, la testimonianza, la “prova” in un senso sia pubblico che privato vengono raccontati facendo ricorso agli strabordanti, e talvolta dimenticati , materiali dei tanti archivi esistenti in ogni parte del mondo  (la stessa DuVernay, come si diceva, usa l’autentica registrazione dell’omicidio del giovane Martin, montandoci poi sopra una sequenza di finzione che ne delimita e  ne depotenzia la forza intrinseca) qual è il senso di continuare a produrre ulteriori  immagini più o meno mimetiche , e di creare una sovrabbondanza di segni e sensi che non genera uno sguardo altro ma fa collassare i residui di una rappresentazione ormai derivativa ?

Proprio la visione qui alla Mostra del Cinema di Frente a Guernica , opera-mondo realizzata da due artisti come Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi ( per quest’ultima si dovrebbe parlare di un film postumo ,in quanto è scomparsa nel 2018,  ma c’è una tale vitalità e creatività che è quasi impossibile pensare al loro cinema in una chiave post mortem…) che hanno da sempre cercato proprio nei più sperduti, Mintimi, rimossi archivi il corpo pensiero di una forma trasformativa e continuamente inedita di cinema, partendo talvolta dallo straordinario che c’è nell’ordinario : e in questo caso si tratta di un soggetto che è molto in contatto con quello di cui parlano DuVernay/ Wilkerson , all’interno di un respiro ancora più espanso e trasversale.  L’immanente e devastante esplosione della dittatura nazifascista nella sua manifestazione più violenta e brutale , nei bombardamenti di città , villaggi;  popolazioni inermi colte nello sfollamento e nel terrore, come nella resistenza e nella lotta. E inoltre la testimonianza dell’arte come espressione in progress che elabora la hybris e l’orrore degli uomini della guerra e ne (mette in) mostra la faccia non più mascherata dalle sovrastrutture verticali della propaganda e del consenso coatto , ma le carni scomposte e ricomposte delle loro vittime, su una tela di coscienza, colpa e stigma.

Ecco, la voce narrante di Gianikian, al contrario di quella di DuVernay per interposto il libro della Wilkerson, non ha teoremi da dimostrare per convincere la platea di un uditorio che si aspetta spiegazioni e suggerimenti  ( “Io non scrivo per porre domande ma per dare risposte”, sostiene Isabelle per esplicare il discutibile approccio al suo lavoro).

È al contrario il racconto di fatti che si trasformano, davanti ai nostri occhi e dentro le nostre orecchie, nella ferita ancora pulsante e spalancata su  un immaginario composto di tante prospettive, percezioni, frammenti. Un caleidoscopio che non può essere riportato ad un’ origine primaria, ma si estende lungo lo scorrimento di un flusso perpetuo.


Originregia e sceneggiatura: Ava DuVernay dal romanzo Caste: The Originis of our Discontents di Isabel Wilkerson; fotografia: Matthew J.Lloyd; montaggio: Spencer Averik; musica: Kris Bowers; interpreti: Aunjanue Ellis-Taylor, Jon Bernthal, Niecy Nash-Betts, Vera Farmiga, Audra McDonald, Nick Offerman, Blair Underwood; produzione: ARRAY Filmworks; durata: 130 minuti; origine: USA, 2023.

 

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