Otto ore non sono un giorno, l’epica quotidiana di Rainer Werner Fassbinder

“Il piccolo deve rimanere piccolo”, cosi dice Franz, aspirante capo del personale di una fabbrica che produce pezzi da inserire dentro macchinari specializzati: il suo predecessore è morto per infarto e, con il solidale sostegno dei colleghi, lui vorrebbe fare l’esame per acquisire anche formalmente la qualifica a sostituirlo, ma il burocrate responsabile del personale preferisce applicare la procedura imposta dai vertici e assumere un esterno. Eppure questa battuta non è solo uno degli snodi narrativi più significativi di Otto ore non sono un giorno, la prima serie realizzata dall’allora ventisettenne Rainer Werner Fassbinder (siamo nel 1972) per la WDR, la televisione pubblica tedesca, trasmesso la scorsa settimana da Fuori Orario e presente ancora su RaiPlay, nonché distribuito in cofanetto dalla Ripley’s Home Video. Ne offre infatti anche una chiave di lettura attraverso la capacità che RWF possedeva  di pervadere di complessità e ambivalenze anche la superficie quieta e gioiosa di questa saga familiare (nel suo senso più esteso ed etico di comunità).

Piccolo, quotidiano, ordinario  è anche  il giorno che dura più di un turno in fabbrica degli uomini e delle donne che passeggiano, accompagnati dallo sguardo questa volta eccezionalmente empatico e avvolgente del regista bavarese, tra l’alba e il tramonto dei titoli di testa e di coda, lungo i crocevia di un microcosmo che in realtà non deve e non vuole rimanere piccolo, ma aspira ad ampliarsi e ad includere. La promozione di Franz, il suo concetto di “piccolo”,  non è infatti in relazione ad un “grande” legato a una questione di potere verticale, ma capovolge il senso della percezione che gli operai, pur ripresi nel luogo comune –  ma vero in quanto tale – della bettola in cui si ubriacano,  hanno di loro stessi:  non subalterni ad un sistema di hegeliana dialettica servo-padrone da rovesciare per instaurare una  ribaltata forma di potere e di sopruso, quello cioè che Rainer avrebbe applicato fino alla sfinimento nei suoi melodrammi borghesi a partire da Le lacrime amare di Petra von Kant uscito nello stesso anno (si veda la nuova versione di  François Ozon https://close-up.info/peter-von-kant-di-francois-ozon/ appena presentata alla Berlinale); ma alternativi in un processo rigenerativo che viene tradotto, al di là del media specifico di destinazione, nel linguaggio del cinema; e cosi l’uso ripetuto durante i cinque episodi delle carrellate orizzontali, come del susseguirsi di ravvicinati  primi piani   o dei campi totali su tutti i personaggi in rapporto allo spazio che abitano, in particolare quello della fabbrica, diventano l’estrinsecazione sempre poetica e mai didascalica di una visione politica , l’invito a far confluire l’ autocoscienza individuale dentro una dimensione collettiva, il movimento- cinema che si fa estetica del movimento operaio. Sarebbe riduttivo , vista la portata di una tale epica quotidiana, analizzarne solo l’aspetto prettamente e specificamente politico , facendo finta di ignorare tutto quello che il cinema di RWF era stato nel recente, già intenso passato e sarà nell’immediato, bruciante futuro.

Per fare ciò, basta vedere la sequenza d’apertura del primo episodio, Jochen e Marion: il piccolo e angusto soggiorno dell’ appartamento di una famiglia proletaria – i Krueger , intorno ai quali ruota il fulcro principale del racconto –  sembra essere troppo affollato per  le sue dimensioni, ma anche per quelle dell’inquadratura che spesso riprende i personaggi, stagliati come figure disposte in maniera coreografica, dalla cornice  di una porta aperta, ad aumentare un senso di claustrofobia e di oppressione.  Era la forma a cui Fassbinder già ci aveva abituati fin dal suo secondo film Katzelmacher, che rappresentava  l’apatia, l’isolamento e la repressione pronta ad esplodere di un gruppo di giovani bavaresi avulsi da ogni orizzonte utopico, come da qualsiasi possibilità sul presente, un gruppo di individui fondato sullo stanco e monotono senso di appartenenza del gesto fine a se stesso, del farsi attraversare  indolentemente da un vuoto, interiore ed esteriore, coabitato e non condiviso.

Da questo punto di partenza dato da un codice linguistico autoriale cosi marcato e riconoscibile, Fassbinder intraprende però un’altra direzione e sfonda la quarta parete di quella prigione di convenzioni e ritualità- si sta festeggiando il compleanno dell’estroversa e simpatica nonna , la cui insolente allegria e incontenibile vitalità già annunciavano la rottura dell’immobilismo della situazione- per scendere in strada e seguire il suo protagonista, l’energico ed entusiasta Jochen, fino all’incontro fatale davanti ad una macchina distributrice di barattoli di sottaceti , lo sfondo più vero e bizzarro per cominciare una storia d’amore; e il colpo di fulmine con Marion non viene declinato solo in una chiave da commedia sentimentale ma si intreccia anche con un discorso più ampio, in quanto è il nucleo , il fattore scatenante e determinante che porta entrambi a cambiare le loro vite- lei, di estrazione piccolo borghese, lascia il fidanzato mite ma senza passione, lui esce dal cliché di seduttore seriale- e in, qualche modo, quelle delle persone che stanno loro vicine. Alter ego di questa prima coppia è quella che si formerà nel secondo episodio , tra nonna Krueger e il vedovo Gregor, portatori di un’ ingenuità irriverente, fanciullesca, giocosa -non a caso apriranno un asilo per i bambini del quartiere ribellandosi al burocratico iter dell’ottuso funzionario comunale – e come Jochen e Marion, in grado di formare una comune ben diversa da quella di Katzelmacher. Non c’è più il buco nero di un’insoddisfazione senza origine e senza fine, e nessun rispecchiamento compiaciuto nella ferita non dichiarata e non  compresa dell’altro. Qui tutti si danno da fare gli uni per gli altri, e la fabbrica non è più il luogo alienante e trasfigurato da un grottesco estrapolato ed esasperato da un privato cupo e mortifero, una dicotomia mostrata ne La classe operaia va in paradiso di Elio Petri che, poco prima che Otto ore non sono un giorno venisse trasmesso in tv, vinceva la Palma d’oro al Festival di Cannes.

Il luogo di lavoro e i luoghi della vita sono legati dalla stessa presenza di spirito e di corpo degli uomini operai e anche questa associazione  Fassbinder  la sintetizza con la forza essenziale e stratificata al tempo stesso della sua regia: un piano sequenza dei compagni di Jochen nudi, sotto la doccia, in un momento peraltro di criticità e di distanza , quando lo accusano ingiustamente di aver provocato per un eccesso di zelo la sospensione da parte dei proprietari di un premio di produzione. Un momento di tensione ma sempre di contatto, in cui non si perde mai di vista la problematicità di quel contesto, le pressioni psicologiche ed emotive di corpi compressi e filmati frontalmente in una nudità che è anche fragilità, disperazione, smarrimento. La vicinanza, il dialogo rispetto al “problema” – quello che chiede loro Jochen-il farsi tangibili e presenti sembrano essere l’unico modo per attraversare  la valle del Rio das Mortes, tanto per restare in ambito di titoli fassbinderiani antecedenti, non più nella riproduzione di una spettrale pantomima di trapassati cacciatori d’oro , ma in un continuum di spazio e tempo tra i propri valori, principi, ideali e  il comportamento di ogni giorno. Colpisce poi che, come non mai, Fassbinder abbia applicato una delle sue riflessioni più interessanti- è bello vedere una donna pensare, veramente. Fa sperare – proprio all’interno di un’ opera in cui dovrebbero essere i personaggi maschili più attivi e quelli femminili più relegati ad una funzione narrativa, a quella parte del racconto  che in particolare il partito comunista dell’epoca e certa stampa di sinistra rimproverarono a Fassbinder di apparire come una sorta di soap opera in cui si diluivano oppure venivano banalizzate le tematiche politiche e sociali. In realtà , con la sua maestria connaturata nel saper coniugare la riflessione intellettuale con l’intrattenimento popolare per parlare a qualsiasi tipo di pubblico, una qualità che avrebbe maturato con gli anni e che qui già appare sorprendente, è proprio durante gli incontri sentimentali tra Jochen e Marion che quest’ultima, di fronte ai dubbi del compagno, fa crescere in lui la consapevolezza della necessità di proporre un coalizione ai suoi compagni, di riprendere letteralmente in mano il luogo fabbrica e l’azione lavoro come strumenti di rivendicazione di un diritto e di un primato sul profitto capitalistico, in un principio ancora più “dal basso” rispetto alla rappresentanza sindacale; ed è nonna Krueger che, con fare più scanzonato ma altrettanto diretto e coinvolgente, scoperchia la piaga della speculazione edilizia nell’aumento spropositato degli affitti da una parte e dell’abbandono e il degrado di locali pubblici dentro i quali far nascere appunto la concretissima utopia di un asilo colorato dai bambini nel segno dell’anarchico divertimento.

In effetti, sembra di parlare dell’attualità di una qualsiasi metropoli anche italiana di oggi, a cui però il  cinema non riesce più ad offrire uno sguardo, una prospettiva o anche semplicemente un racconto.

Sempre pensando e guardando a posteriori, accanto all’euforia e alla gioia di  vivere , alla volontà di esporsi e di prendere una posizione per e con gli altri, Otto ore non sono un giorno lascia il passo al dolore, lucido e visionario, che Fassbinder avrebbe ostinatamente messo in scena smarrendo quell’allegria ridanciana e   affettuosa , per tornare alla cornice iniziale in cui rinchiude il suo stesso corpo e quello del suo tormentato compagno Armin Meier nello sconvolgente episodio autobiografico di Germania in autunno: film corale e sigillo di un stagione della storia del cinema e della società tedesche, in cui i maggiori registi dell’epoca facevano i conti con una rivoluzione senza più fiori da regalare o appartamenti da ristrutturare, con il definitivo tramonto del  tempo dei patteggiamenti , del dialogo, della mediazione e il dominio dell’estremismo distruttivo e sanguinoso della RAF da una parte e la risposta ottusamente violenta e ugualmente radicale dello Stato dall’altra.

In mezzo a tutto ciò, Rainer nudo, in ginocchio, piangente tra le braccia del suo amato , inerme di fronte a qualsiasi possibilità di staccare la macchina da presa da quell’attimo cristallizzato di impotenza e disperazione. Una volta volate in cielo tutte le mamme Kusters o le nonne Krueger, quando la paura ha finito di mangiare l’anima e otto ore non sono più un giorno perché, parafrasando il titolo del biografia fassbinderiana di Jurgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita (Il Saggiatore, 2014).

 

       

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