L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice di Alain Guiraudie

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Un uomo impaziente che corre, una donna in attesa che passeggia e intorno a loro, anzi assieme a loro,  lo spazio di una città in continuo movimento e trasformazione.

La prima scena dell’ultimo film di Alain Guiraudie è già nel segno di un dinamismo espresso fin dal evocativo titolo originale (tradotto in Italiano nel più pedante L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice) inscritto in una promessa mai esplicitata e rivolto ad un’aspettativa continuamente rimandata,nella precarietà/indeterminatezza di un  soggetto e di un orizzonte: viens j’ettemene– vieni, ti porterò.

È dunque subito un cinema di irrequietezza e spiazzamento quello del regista francese, apparentemente distante dalla statica astrazione delle rive e dei boschi promiscui de Lo sconosciuto del lago (L’Inconnu du lac, 2013, ad oggi forse il suo film più visto e celebrato). Se in quel caso l’identità di luoghi e corpi esplodeva nella luce solare e primitiva che illuminava la disinibizione e l’esibizione del desiderio omoerotico (prima di essere risucchiato dalla notte oscura delle pulsioni represse), qui la premessa iniziale è da Sitcom ozoniana del paradosso e del controsenso: il dolce e spaesato Mederic, in tenuta da jogging,  approccia la matura Isadora, forse infantilmente attratto dalla sua autunnale luminosità di putain sotto le spoglie di una maman di generosa carnalità.

Lei è in procinto di essere letteralmente caricata dalla macchina di un cliente, ma questo non scoraggia lui dal proporle un bizzarro comizio d’amore tra corpo e cuore nello stesso albergo a ore in cui la donna  ritualizza la propria ninfomania, escludendo qualsiasi coinvolgimento emotivo. Ma si rivelerà una falsa/farsa partenza con tanto di coitus interruptus dalla duplice violenza pubblica (l’attentato terroristico di matrice jihadista annunciato dalla tv) e privata (il marito di Isadora che interviene a bloccare quel principio di liaison fuori orario). In questo strabismo di prospettiva Guiraudie accumula una tale quantità di elementi, spunti e situazioni da dare la sensazione di girare a vuoto, di non avere un focus e un fuoco, quasi a volersi identificare nell’indecisione e nella reticenza di Mederic, schiacciato dentro gli occhi blu spalancati e sbigottiti del suo protagonista Jean Charles Tichet (quasi un doppio virato in biondo di Mathieu Amalric e, rispetto a quest’ultimo, maschera più comica che tragica) o con il sorriso enigmatico di Isadora, alla quale Noémie Lvovsky imprime la sua arte di comedien in grado di trasalire dalla risata di gioia alla smorfia di amarezza con poche, concentrate espressioni. Anche se qualcosa che tiene tutto insieme, che contiene il mix di tenerezza e violenza, delazione e solidarietà, accudimento domestico e guerriglia urbana, si sente tra la filigrana di uno sguardo che arriva in seconda battuta, preferendo dare fiato al ritmo da pochade. In rilievo c’e il palcoscenico delle piazze e delle vie di una Francia attorno a cui si stringe l’occhio della paranoia terroristica post Bataclan, fino a infiltrarsi, stavolta nelle fattezze di un seducente homeless arabo in cerca di protezione dai suoi stessi compagni di strada, tra le mura di appartamenti privati, loculi di una nevrosi solitaria sul punto di esplodere in un rocambolesco, rutilante scontro armato a distanza di marciapiede. Un crocevia di barricate dove il confine tra giusti e giustizieri, sguardi indignati e sguardi voyeurs si confonde fuori e dentro la medesima facciata di una palazzina di borghesi piccoli piccoli. L’ambizione, troppo enunciata rispetto alla vacuità del racconto, è dunque quella di mettere in relazione una certa precarietà esistenziale, concentrata nella ricerca goffa e confusa di un’identità sessual/affettiva/erotica , con le tensioni sociali e politiche di un paese che continua a fare i conti con le contraddizioni del proprio afflato multietnico.

Le reiterate, ostinate corse di Mederic che cambiano gradualmente la loro destinazione, passando dal bisogno solipsistico di soddisfare una pur comprensibile fame di calore ed eros, fraintendendone il (s)oggetto d’ispirazione, alla scelta di riconoscere e prendere in carico una questione etica (evitare il linciaggio del giovane mussulmano) e crearvi intorno una piccola, improbabile comunità di sopravvissuti tenuta insieme dalla frammentata pietas di signore della porta accanto e non dalla retorica crepuscolare di uomini che amavano le donne. Non può essere estranea a una svolta tanto radicale, manifestata,  come si diceva, attraverso la prospettiva in sordina di un’ ottica che sovrappone ordinario e straordinario (con tanto di sequenza onirica), l’affermazione di un desiderio solo alluso e spesso frainteso. Se il momento del coming out di Mederic appare come l’ennesimo detour in un tourbillon di attrazioni e distrazioni, è proprio perché c’è una carenza nella forma/sostanza filmica che avrebbe dovuto far sentire la plausibilità, se non proprio la verità, di tale affermazione: invece non sono abbastanza dense di promesse e possibilità  le occhiate sfuggenti e incuriosite tra il diffidente nerd quarantenne e il ragazzino straniero ospitato per una notte, accomunati da una probabile verginità di senso e di sensi, cristallizzata dalla rimozione e dalla paura ( di matrice più nevrotica per uno e più culturale per l’altro). Cosi Isadora, che si farà viatico uterino di liberazione/emancipazione per entrambi dal fantasma di un femminile maternale e sororale , potrebbe essere una farsesca e minimalista versione della Lysiane/ Jeanne Moreau del Querelle fassbinderiano, donna archetipica sulla quale vibra e si materializza l’incarnata passione omosessuale. Ma sono suggestioni che rimangono latenti fino all’evanescenza nell’atto della messa in scena, con un intento che, magari pretenziosamente, si potrebbe definire volontario nel far primeggiare uno sgangherato, vitale caos di accoppiamenti (alla fine tutti i personaggi, borghesi e proletari, immigrati e cittadini regolari, capitalisti e anarchici, sfruttati e sfruttatori dormiranno sotto un unico tetto e probabilmente anche nello stesso letto) sopra le ceneri fumanti di quel che resta di un mondo post umano e post ideologico.

Passato in anteprima al Nuovo Sacher di Roma (Randez -vous Festival del nuovo cinema francese) venerdì 31 marzo, ore 21, alla presenza del regista Alain Guiraudie.
In sala dal 27 aprile 2023


L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice (Viens je t’emmene)  – Regia: Alain Guiraudie; sceneggiatura: Alain Guiraudie, Laurent Lunetta; fotografia: Helen Louvart; montaggio: Jean-Christophe Hym; musica: Xavier Boussiron; interpreti: Jean-Charles Clichet, Noemi Lvovsky, Illies Kadri, Doria Tiller, Renaud Rutteri; produzione: CG Cinema, Les Films du Losange; origine: Francia, 2022; durata: 100 minuti; distribuzione: Satine Film.

 

 

 

 

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