Shambhala di Min Bahadur Bham (Festival di Berlino – Concorso)

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Cominciamo subito con una confessione. Mea culpa, mea maxima culpa: non sapevo che cosa significasse Shambhala, iniziando a vedere il film pensavo fosse un nome di persona. E invece, al termine del film, ho scoperto – e lo dico a beneficio di quei pochi che non lo sanno – che 1) è una parola sanscrita; 2) è una sorta di regno mitico dalla presunta collocazione la più varia (India, Tibet), di fatto non si sa dove sia; 3) sarebbe abitato da individui dotati di superiore saggezza; 4) il presunto regno è stato al centro di una spedizione in epoca nazista, gli ariani vedevano in quella razza superiore i loro antenati (follie coordinate dallo zoologo Ernst Schäfer fra il 1938 e il 1939);  5) è ampiamente diffuso nella cultura popolare, per esempio nei videogames. Bibliografia ce n’è quanta ne volete.

Ma veniamo ora al film, che è la coproduzione più coproduzione di tutta la Berlinale 2024, i paesi coinvolti sono addirittura 9: due europei, sei asiatici e gli Stati Uniti. Ambientato in Nepal, a non grande distanza dal Tibet, il film si apre in modo molto gioioso: un matrimonio d’amore (cosa che uno immagina non frequentissima da queste parti) fra la protagonista che per i successivi 150 minuti non lasceremo mai che risponde al nome di Pema e tre fratelli, rispettivamente: Tashi, Karma e Dawi. Mi sa che da queste parti se si sposa un maschio, se ne devono sposare anche i fratelli. In realtà è tutto un pro-forma, perché c’è diciamo il marito vero, il numero uno, che è Tashi, poi c’è Karma che però, volente o nolente, come i cadetti di una volta, deve ben presto andare in convento, qui: a fare il monaco buddista (ed è un tipo un po’ strano: da queste parti dove tutti mangiano carne di yak è vegetariano, non sa andare a cavallo) e poi c’è il terzo fratello, che in realtà è un fratellino, avrà si e no dodici anni, è un po’ monello, non va bene a scuola. Quindi Pema li sposa tutti e tre.

Il problema nasce quando la casa da molto piena diventa molto vuota: perché, come detto, Karma va in convento e Tashi deve partire per la spedizione annuale, in vista di uno scambio commerciale (i nepalesi vendono i loro prodotti in cambio di altre cose che gli servono). Tanto che Pema, dispiaciuta della partenza del, chiamiamolo, primo marito resta sola col ragazzino e interagisce un po’, anche per rabbonirlo, con il maestro che ha un aspetto urbano (occhiali piuttosto alla moda e vestiario diverso da tutti gli altri) e risponde al nome di Ram Sir.

Dopodiché si scopre è incinta: lo ha fatto con Tashi prima che partisse, o è andata a letto col maestro? La gente anche in questo posto dimenticato da Dio (da Buddha) parla, mormora, la calunnia è un venticello come cantava Don Bartolo nel Barbiere di Siviglia. E il venticello giunge fino alle orecchie di Tashi che sparisce, non si fa più trovare. La donna nega di averlo tradito e decide, già a metà gravidanza,  di mettersi in cammino per cercarlo e per convincerlo che quel che su di lei si racconta non è vero. Ma il viaggio non può farlo da sola. Il marito due viene allora obbligato da Rinpoche, il suo superiore al convento di mollare la preghiera e la meditazione e di accompagnare verrebbe da dire la cognata, in realtà sua moglie.

E i due cominciano a vagare per valli e per monti, in una natura che anche sul piano paesaggistico sembra un autentico giro-girotondo, dove a un certo punto c’è sempre qualcuno che uno immagina lontanissimo che come per miracolo fa la sua comparsa e  ritrova i pellegrini. Succedono altre cose che non racconterò, la verità si intuisce ma non la si sa per certa, e il film finisce per non giustificare neanche lontanamente la sua smisurata durata perché da un certo punto in poi cessa di fornire nuovi elementi narrativi, psicologici ma anche solo paesaggistico-estetici e si incista su se stesso, mostrando evidenti problemi di sceneggiatura e di montaggio, con il cavallo che sparisce, ritorna e ri-sparisce, cene all’addiaccio intorno al falò, Pema che fa la calza, pietre con simboli, qualche festa colorata, omaggi al folclore e alla religione, sogni in bianco e nero, e almeno in tre occasioni l’evocazione del mitico regno shambhala.  Poi, ovviamente, ci sono tanti, tanti yak.


Shambhala; regia: Min Bahadur Bham; sceneggiatura: Min Bahadur Bham, Abinash Bikram Shah; fotografia: Aziz Zhambakiyev; montaggio: Liao Ching Sung, Kiran Shrestha; interpreti: Thinley Lhamo (Pema), Sonam Topden (Karma), Tenzin Dalha (Tashi),  Karma Wangyal Gurung (Dawa), Karma Shakya (Ram Sir), Loten Namling (Rinpoche);  produzione:  Shooney Films; origine: Nepal, Francia, Norvegia, Hong Kong, Cina, Turchia, Taiwan, USA, Qatar, China 2024; durata: 150′

 

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