Sundown di Michel Franco

Bagni di sole. Luoghi paradisiaci. Secchi colmi di birre ghiacciate. Un uomo osserva dei pesci agonizzare, a colpi di branchie che respirano a vuoto. Sa di essere alla deriva benché non si stia muovendo di un millimetro, mentre il resto del mondo gravita intorno a lui per salvarlo dal naufragio sociale. Loro si agitano, si affannano, si deformano, lui rimane ad annegare dolcemente al sole, anche quando la rinsacca si tinge di rosso.

Sundown, per la regia di Michel Franco, è un film che deve confrontarsi innanzitutto con la gestione del silenzio, a volte asettico a volte condito dai rumori della vita, sempre e comunque tensivo, e lo ricerca come fa il suo protagonista, senza esitazioni o troppe parole, in contrapposizione a un crescendo di trama insistente e aggressivo. Ma lui vuole soltanto essere lasciato solo, vuole curare la propria deriva senza disturbare alcuno.

Neil (Tim Roth) è in vacanza con la sorella Alice (Charlotte Gainsbourg) e i nipoti Colin (Samuel Bottomley) e Alexa (Albertine Kotting). Sono ricchi, eredi di una multinazionale dell’industria della carne suina, e si stanno godendo Acapulco in uno degli hotel a cinque stelle della città. La vacanza trascorre fra bagni di sole e massaggi, e Alice è felice che Neil sia con lei. Poi, arriva una chiamata. La madre è morta, la famiglia torna a casa con il primo volo. In realtà, tutti tranne Neil: ha dimenticato il passaporto in albergo e promette di partire con il prossimo volo.

Uscito dall’aeroporto, mentre osserva da lontano sorella e nipoti andarsene in pianto, sale su un taxi e si fa portare al primo albergo, uno qualsiasi, sufficiente che sia vicino alla spiaggia, luogo dove passerà il resto del tempo. Sole, onde, birra, e una ragazza del luogo a fargli compagnia, Neil sprofonda nel torpore messicano mentre il cellulare suona di continuo. Il problema si risolve ficcandolo in un cassetto dove rimane a singhiozzare. Tra bagagli rubati e ammazzatine vista mare, un giorno una voce lo chiama alle spalle: è quella della sorella, tornata a riprenderlo e senza parole, anzi solo con una domanda: «Che cosa stai facendo?». Neil non lo spiega, pare pure che non lo sappia, però è pronto a rinunciare a tutto perché una risposta non la debba dare e sia lasciato in pace. Pronto anche a perdere l’eredità, e soprattutto la propria famiglia.

Michel Franco ci porta nel suo Messico e lo fa mostrando le contraddizioni di uno Stato che è paradiso per i bianchi e piacevole limbo per gli abitanti. Loro sanno che non c’è futuro, esiste il presente, è uno solo ed è meglio viverlo su una sdraio con una birra in mano. Eppure se c’è il paradiso, l’inferno è dietro l’angolo. Soprattutto per loro, i bianchi, che non sanno le regole del gioco e pensano che la ‘banca’ sia al di sopra delle parti e intoccabile. Il prezzo da pagare a riguardo è durissimo. Neil però non lo paga, almeno non direttamente.

Lui è veramente intoccabile, perché completamente intangibile da contatti esterni. Il sole lo inonda, ma lui non sembra scaldarsi, o se si scalda perde calore nel giro di pochi minuti, sorta di animale a sangue freddo. Tim Roth calza così alla perfezione per questo ruolo. Ironia o meno se Franco cercava un attore che riducesse al minimo la mimica facciale e comunicasse il suo isolamento dal mondo (dei vivi) con la sola presenza, be’, Roth si è rivelato quello giusto. Neil non ha acuti, non ha sbalzi d’umore, sembra privo di emozioni, almeno finché una spiegazione a tutto ciò non viene data.

Si è parlato di animale a sangue freddo, e un animale a sangue freddo vive pressoché in osmosi con l’ambiente che lo circonda, o che attorno gli viene creato. Non si tratta di quello naturale, messicano, o almeno non soltanto di quello, ma pure di quello cinematografico. La pellicola è addormentata in un sonno estivo post pranzo, stretto nell’afa e al contempo attraversato a tratti da freschi soffi che conciliano il riposo. Il bello addormentato non è però solo lo spettatore, è il protagonista, il quale si trova a vagare tra una gamma di silenzi aiutati – paradossalmente ma non troppo – dai lesinati suoni che li avvolgono: quello asettico dell’albergo di lusso, in presenza della famiglia – e quindi tollerato affettuosamente da Neil -, quello d’abbandono ricercato nella spiaggia affollata di fronte alla pensione a zero stelle – silenzio interrotto solo dalle raffiche di mitra -, infine quello terminale, solitario, di fuga da tutti, da chi si ha amato e da chi si ama, perché alla fine nessuno può capire cosa sia il naufragio. Nessuno, a parte il naufrago, che sa o immagina perché la nave sia colata a picco.

Passato in concorso alla 78° Mostra Internazionale di Venezia, Sundown è un film tiepido che con l’andare dei minuti pungola lo spettatore con una sola domanda: Perché? Perché Neil si lascia andare, rinuncia a una fortuna, scappa dalla famiglia? Perché lo fa? Perché lo vuole fare? Perché non dice nulla? Insomma, perché non parla e spiega? E fino alla fine si combatte tra volontà di voler conoscere e la speranza, nascosta, di non volerlo tutto sommato sapere. Perché? Perché la mancanza di una risposta a volte vale per cento risposte, come serpenti, falsi e mai domati, che smettono di sentire il flauto e si rivoltano contro chi sta a sentire. Eppure, Neil osserva dei pesci agonizzare, a colpi di branchie che respirano a vuoto, su una barca, nel mezzo del mare, sotto il sole.

In sala dal 14 aprile 


Sundown – Regia e sceneggiatura: Michel Franco; fotografia: Yves Cape; montaggio: Óscar Figueroa, Michel Franco; scenografia: Claudio Ramírez Castelli; costumi: Gabriela Fernández; interpreti: Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Larios, Henry Goodman, Albertine Kotting, Samuel Bottomley; produzione: Teorema, CommonGround Pictures, Film i Väst, Luxbox; origine: Messico, Svezia, Francia, 2021; durata: 83’; distribuzione: Europictures.

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