“Provaci ancora Penn”, verrebbe da dire parafrasando il vecchio Woody Allen. C’era tanta attesa al Festival di Berlino per Superpower, presentato fuori concorso nella sezione “Berlinale Special”, ma la delusione è stata forte. Delusione, ben inteso, sul piano della creazione artistica, perché certamente non si può biasimare l’impegno civico-politico del regista statunitense di consacrare un’opera cinematografica e la propria notorietà alla causa della nazione ucraina e al suo presidente Volodymyr Zelensky in questi mesi di invasione e di guerra. Ma sul piano cinematografico il documentario non regge: ha una struttura debole e disorganica, senza un filo conduttore preciso, un ritmo da thriller troppo calcato e ad effetto. I colloqui con giornalisti ucraini ed esperti di alto profilo (come il tenente colonnello in pensione Alexander Vindman, ex direttore degli Affari europei del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti) rimangono pezzi di un mosaico disordinato.
Due precisazioni vanno subito messe in chiaro. La prima è che Sean Penn non ha lavorato da solo, ma la pellicola è firmata da Aaron Kaufman come coregista. La seconda è che il film è stato concepito e iniziato ben prima del 24 febbraio 2022, data fatidica in cui le armate di Vladimir Putin sono entrate nel territorio ucraino. Le prime riprese di Superpower risalgono infatti all’inizio del 2021, quando l’invasione dell’esercito russo pareva ancora una minaccia lontana ed era giudicata dalla maggior parte degli osservatori come un azzardo impossibile. E proprio mentre Penn e Kaufman si trovavano a Kiev, attratti soprattutto dal fenomeno Zelensky e dalla sua trasformazione da attore comico della tv (gustosi gli sketch di repertorio in cui si vede il futuro presidente nei panni di guitto in spettacolini ridanciani e di pessimo gusto) in presidente della Repubblica ucraina, ecco che l’invasione di Putin si è realizzata veramente costringendo i due cineasti a spostare il tiro della loro operazione.
Se nel disegno originario si trattava di ricostruire le vicende storiche del recente passato ucraino, dalla rivolta di piazza Maidan (2014) all’elezione di Zelensky, ora la guerra diventa il centro focale. Vediamo la capitale sotto le bombe, le trincee, le atrocità, la mobilitazione generale. Inaspettatamente, i registi diventano testimoni oculari di questa tragedia, la cui fine appare ancora molto lontana e indecifrabile.
Protagonista indiscusso del film è il presidente Zelensky. La prima intervista, in cui lo si vede in giacca e cravatta, è datata proprio alla vigilia dell’invasione. Negli incontri successivi, dal vivo e tramite Zoom, il presidente compare con la tuta mimetica grigio-verde e lo si vede crescere in consapevolezza e autorevolezza. Poco spazio è dato, invece, alla popolazione ucraina, alle sofferenze che la guerra produce, alla mobilitazione che ha sconvolto la normale quotidianità dei cittadini comuni, trasformati, da un giorno all’altro e senza addestramenti specifici, in soldati da combattimento.
Come si diceva all’inizio il film presenta diversi limiti, in parte giustificabili con l’urgenza di preparare la pellicola per il Festival berlinese e con la necessità di stare dietro all’incalzare degli eventi. Non giova certo il ruolo centrale che Penn attribuisce a sé stesso, fisicamente quasi sempre presente in scena – con l’inconfondibile ciuffo di capelli dritti, sigaretta sempre accesa, e qualche bicchiere di vodka accanto – al punto che il film racconta più che altro dello stesso autore che vuole profilarsi quale ambasciatore non ufficiale nel mondo dell’Ucraina e del suo atipico capo di Stato.
Lo vediamo muoversi nei meandri del palazzo presidenziale ucraino, in tunnel e trincee accompagnato da militari, sconfinare anche rocambolescamente in Polonia.
Già vincitore nel 1996 di un Orso d’argento con Dead Man Walking, il ritorno di Sean Penn al Festival della capitale tedesca non è stato, dunque, particolarmente felice. L’esito artistico, come si è detto, non è gran che e anche lo scopo didattico, se così si può dire, non è molto centrato. Si comprende bene il desiderio di enfatizzare positivamente la figura di Zelensky quale guida della resistenza ucraina contro l’invasore russo, ma certi toni agiografici in cui il film tende a scadere, soprattutto nella parte finale, risultano non solo melensi, ma perfino dannosi alla causa per cui i registi si sono voluti spendere.
Nel corso di un incontro con la stampa a margine della proiezione è stato chiesto a Sean Penn se non crede che il suo film sia un’opera di parte e propagandistica. Il regista, vincitore di due Oscar, ha risposto con queste parole: «Se mostrare la verità sull’assoluta unità dell’Ucraina nel difendere tutte le cose che rendono la vita degna di essere vissuta equivale a fare propaganda, allora sono molto orgoglioso di essere visto come un agente di propaganda». E non ha mancato di lanciare un appello agli alleati degli Stati Uniti e della NATO affinché forniscano presto all’Ucraina missili di precisione a lungo raggio.
Superpower – Regia: Sean Penn, Aaron Kaufman; montaggio: Carlos Haynes, Victoria Lesiw,
Malcolm Hearn; musica: Justin Melland; produzione: Vice Studios (Los Angeles, USA); origine: USA 2022; durata: 115 minuti.