The Caine Mutiny Court-Martial di William Friedkin

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Il congedo cinematografico di William Friedkin, scomparso lo scorso 7 agosto di questo ormai terminato 2023, si celebra in forma postuma nell’aula di un tribunale militare: The Caine Mutiny Court-Martial, presentato alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia del 2023 e passato poi direttamente sulle piattaforme (ora su Paramount+) è infatti l’adattamento cinematografico della pièce teatrale dello scrittore americano Herman Wouk che aveva a sua volta adattato la parte processuale del suo romanzo L’ammutinamento del Caine: un testo dunque scorporato e riformulato in un’ aristotelica unità di tempo, luogo e azione per raccontare il conflitto tra un giovane ufficiale della marina, imputato per  ammutinamento, e il deposto capitano di una nave da guerra, un malandato e decadente caccia-dragamine, accusato di non essere all’altezza del ruolo di comando per la sua presunta instabilità psichica. Una scena e uno scenario nei quali, a posteriori, si potrebbero trovare, neanche troppo forzatamente, i tratti sintetici ed emblematici del cinema di Friedkin, come la riflessione etica sul potere trasfigurato nell’ accezione dicotomica, ma non risolta, di cosa significhi (agire) bene e (agire) male, essere malati ed essere sani, cos’è giusto o cos’è sbagliato; la pressione asfissiante e saturante di un ambiente ermetico, isolato, sigillato fino all’astrazione e dei relativi ruoli sociali, psicologici e culturali- in primis quelli di vittime e carnefici- che i personaggi sono chiamati a interpretare, a performare sul palcoscenico contro epico, e contro edificante, della realtà. Una realtà rappresentata comunque attraverso l’ottica alienata e allucinata di un disagio, una ferita, un’inadeguatezza. La figura del comandante Phillip Francis Queeg – obliquo e sfuggente nella sua limitata, nel tempo, ma sconvolgente, nel senso, presenza all’interno della storia che appare all’inizio e alla fine del film- stratifica su di sé i tratti di alcuni eterogenei  protagonisti delle opere di Friedkin, come il Michael di Festa di compleanno per il caro amico Harold, il padre Karras de L’esorcista o il Jackie Scanlon de Il salario della paura. Che si tratti di un gioco al massacro durante una cena di una piccola comunità di amici omosessuali, o di essere chiamati a liberare lo spirito e il corpo di una bambina posseduta dal demonio, piuttosto che gettarsi, spinti dalla disperazione, nell’impresa impossibile di trasportare un carico pieno di dinamite attraverso l’America Latina, a essere impressa sulle immagini è sempre una sensazione di terrore, scoramento e tormento. Interpretato da un redivivo Kiefer Sutherland, che porta sul proprio volto i segni di un’ esistenza che è passata, il Queeg di questa versione di Friedkin è differente dal Humphrey  Bogart del film del  1957  di Edward Dmytryk, che si ispirava al romanzo integrale di Wouk, come dal Brad Davis dell’adattamento televisivo del 1988 di Robert Altman. Non c’è il controcanto amaro di un patriarcato letteralmente in disarmo, che passa anche per la decostruzione e la frammentazione dell’iconico Bogey, e neanche la tensione psicotica e alienante di una certa mistificazione istituzionale e politica che soggiaceva la lettura altmaniana. Nella corte del 2023, riflesso di un mondo  sicuramente più inclusivo ed aperto rispetto a un’ occupazione degli spazi concessa prevalentemente a uomini bianchi,  si ritorce lo spettro di un individualismo, di un agonismo, di un’ autoreferenzialità che vede nell’affermazione di sé , più che nel voler far prevalere un’idea di giustizia o a accertare la verità, il vero fulcro dell’agone.

Tutto il processo è un continuo screditamento di imputato e parte lesa , dei testimoni a carico o a sfavore, degli avvocati della difesa e dell’accusa e, in qualche maniera, della stessa giuria chiamata a valutare gli accadimenti, sospesa nella dimensione “a parte” della marzialità e  nella costrizione di dover seguire un prontuario di codici, regole e linguaggi  spesso in contrapposizione con una più profonda e autentica concezione della propria coscienza. Queeg/Sutherland si investe quindi, dichiarandosi in fondo colpevole se non della specifica accusa di aver messo in palese pericolo la nave e l’equipaggio ordinando di modificare la rotta durante una tempesta, quantomeno di avere un comportamento maniacale ed ossessivo, di una debacle che riguarda ognuno di noi. Non a caso, durante la deposizione dei due psichiatri membri della commissione esaminatrice dello stato mentale di Queeg , il difensore Greenwald  sposta l’attenzione sul fragile aspetto identitario, personale, intrapsichico dell’uomo che prevarrebbe e condizionerebbe per difetto la componente compensativa dello stato paranoico rappresentata della brillante carriera militare.

Con la solita, chirurgica accuratezza fatta di una fitta trama di parole e di dialoghi ora concitati ora attraversati da monologanti digressioni, Friedkin arriva al nocciolo della crisi dell’uomo contemporaneo, della sua maschera nevrotica in disfacimento (ogni personaggio ha un tic, una titubanza, una perdita di controllo). E la messa in scena, che richiama l’abusato uso dell’aggettivo magistrale per come gestisce con il massimo di espressività i pochi elementi a disposizione, lavora nella rigorosa sottrazione, nel rendere percettibile ed effettiva questa sensazione di spoliazione e di nudità a cui è sottoposta paradossalmente la corporazione con più medaglie e vessilli.

Torna anche la questione centrale del visibile e del non visibile, che in un film processuale come questo riguarda ovviamente ciò che è provabile e ciò che non lo è;  non a caso un soggetto del genere aveva attratto anche Altman, che sul concetto di fuori campo visivo e sonoro ha costruito la propria ricerca estetica e narrativa. In Friedkin l’approccio documentaristico, che aveva innervato e rivoluzionato la rappresentazione del cinema di genere almeno a partire da Il braccio violento della legge (1971), implica una frontalità impattante, un guardare in maniera diretta le cose da ogni angolazione e prospettiva, in particolare quelle più inedite. Diremo che in questo caso esegue lo stesso lavoro sulla parola, sulla secchezza anti enfatica della recitazione, sull’utilizzo geometrico degli spazi che riproducono un’ esperienza invisibile ai più, un processo marziale, all’interno di una collocazione quasi tridimensionale. Una profondità e una plasticità di campo che ancora a terra un’ altrimenti remota vicenda di disonore, codardia,  complotto. La parafrasi del conflitto di un’ umanità meschina e separata dalla formalità e dalla convenienza, messa in discussione tra la lucida analisi di un sistema gerarchico e la decadente e ambigua fascinazione per un revanscismo ormai al tramonto. Come le parole rivelatorie e sdegnate di Greenwald  che si sgretolano nella scena silenziosa e dolente di un bicchiere di champagne lanciato in faccia all’ipocrisia egoista e manipolatoria  dei suoi stessi assistiti (Keefer, uno dei militari coinvolti ne l’ammutinamento, scriverà un libro sensazionalistico sui fatti accaduti). Un gesto aristocratico e pieno di dignità  con cui Friedkin chiude sul nero il proprio immaginario, e lo restituisce per sempre alla storia del cinema.

Su Paramount+


The Caine Mutiny Court-Martial; Regia e sceneggiatura: William Friedkin dall’omonima opera teatrale di Herman Wouk; fotografia: Michael Grady; montaggio: Darrin Navarro;  interpreti: Kiefere Sutherland, Jason Clarke, Jake Lacy, Monica Raymund, Lance Reddick , Lewis Pullman, Tom Riley, Jay Duplass; produzione: Annabelle Dunne e Matt Parker per Showtime Networks, Selsed House e Loveless Media; durata: 109′; origine: Usa, 2023; distribuzione: Republic Pictures, Paramount +

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