Triangle of Sadness di Ruben Östlund

  • Voto

A Cannes piace – è risaputo – adottare e fidelizzare. Sono tanti i registi già molto famosi che i loro nuovi film li presentano solo a quel Festival. Restando all’Italia pensiamo anche solo ai casi di Paolo Sorrentino (5 volte, un Gran Premio della Giuria per Il Divo), a Nanni Moretti (7 volte e una Palma d’Oro per La stanza del figlio), a Matteo Garrone (4 volte e due Gran Premi della Giuria per Gomorra e per Reality). A Cannes, unico caso fra i grandi festival, aver vinto una Palma d’Oro non è uno svantaggio, in vista di una nuova edizione, di un nuovo concorso, anzi. Sono ben otto i registi che hanno vinto due volte la Palma d’Oro. Il primo fu Francis Ford Coppola (1974: La conversazione; 1979: Apocalypse Now), il secondo è stato Emir Kusturica (1985: Papà è in viaggio per affari; 1995: Undeground), il terzo è stato Bille August (1988: Pelle alla conquista del mondo; 1992: Con le migliori intenzioni), il quarto Shohei Imamura (1983: La ballata di Narayama; 1997: L’anguilla), i quinti sono stati Jean-Pierre e Luc Dardenne (1999: Rosetta; 2005: L’Enfant – una storia d’amore), il sesto è stato Ken Loach (2006: Il vento che accarezza l’erba; 2016: Io, Daniel Blake; Loach ha ricevuto anche tre Gran Premi della Regia), il settimo è stato Michael Haneke (2009: Il nastro bianco; 2012: Amour, è l’autore con la più breve distanza fra una Palma e l’altra), l’ottavo e, finora ultimo, è Ruben Östlund, che nel 2017 vince con The Square e con il film successivo Triangle of Sadness del 2022 vince di nuovo. Anche a Bille August e a Michael Haneke era successa la stessa cosa: due film di seguito, due Palme d’Oro.

Chiedo venia per questa dettagliata statistica ma serve a capire una volta di più che il Festival di Cannes rappresenta la principale istanza di consacrazione autoriale al mondo. Ruben Östlund ha 48 anni ed è un classico caso da Festival di Cannes. Vi esordisce con il suo terzo film, Play (2011) nella Quinzaine des Réalisateurs, passa con il film successivo, Forza maggiore (2014), a “Un Certain Regard” (risultando vincitore) per poi approdare con The Square al concorso principale e sbaragliare una concorrenza che fra gli altri vedeva Fatih Akin, Sofia Coppola, Bong-Joon Ho, Yorgos Lanthimos e ancora Michael Haneke. Confesso che The Square mi entusiasmò al punto da scrivere, in occasione della distribuzione in Italia, un “Perché sì”, dopo che nella recensione, fatta direttamente dalla Costa Azzurra sei mesi prima, la rivista si era espressa piuttosto negativamente.

Ma dopo così tante premesse e così tanti dati, veniamo al dunque.

Cominciando dal titolo Triangle of Sadness che, come ci viene spiegato all’inizio, è un’espressione tratta dal linguaggio della chirurgia estetica, a indicare le rughe di espressione che attraversano la piccola area depressa compresa tra le arcate sopracciliari. Al triangolo della tristezza allude con tutta evidenza la prima delle tre parti, la più breve di tutte che prende il nome dai due protagonisti, ovvero Carl e Yaya, interpretati rispettivamente dall’inglese Harris Dickinson e dalla sudafricana Charibi Dean Kriek, che purtroppo appena trentaduenne è morta quest’estate. Questa prima parte è quanto di più simile a The Square perché si prende gioco del mondo della moda come The Square ironizzava sul mondo dell’arte. Ma su questa dimensione ironico-sociologica si innesta ben presto un conflitto pesantissimo fra i due fidanzati che attiene alla ruolizzazione di genere, in un mondo (uno dei pochi, se non il solo) in cui le donne vantano, sul piano economico, una posizione di privilegio rispetto ai loro equivalenti maschi. La prima parte è, almeno sul piano del dialogo, un po’ ridondante, ma incuriosisce su come la vicenda potrà evolversi.

Dopodiché ha inizio la seconda parte intitolata “Lo yacht”. Yaya è, oltreché una modella strapagata, una influencer e quindi ottiene un viaggio premio nelle isole greche su un yacht di lusso, dove facciamo la conoscenza con un campionario di umanità decisamente poco esaltante: oligarchi russi, sordidi trafficanti d’armi e fauna del genere, va a finire che il pezzo meglio è una signora tedesca (interpretata dall’eccellente Iris Berben, il film, peraltro, vanta molto capitale tedesco) in sedia a rotelle che ha avuto un ictus e che come in una famosa performance di Joseph Beuys, sa solo dire “Ja” e “Nein”, oltre al sintagma “In den Wolken”, ovvero sulle nubi. Come tutte le navi di lusso che si rispettano al cinema, dal Titanic in avanti, è impensabile che la navigazione proceda senza intoppi: qui di intoppi ce ne sono due, dapprima una tempesta furibonda e poi, niente meno che, un assalto dei pirati. Tutto questo accade non senza che i due personaggi forse più tratteggiati, ossia l’oligarca russo (Zlatko Buric) e il capitano della nave alcolizzato (Woody Harrelson) non abbiano dato vita, mentre tutti gli altri vomitano, a una – francamente – improbabile disamina su capitalismo e marxismo di cui ciascuno è fautore. La seconda parte è decisamente mal riuscita, è ripetitiva, compiaciuta nella sua ridondanza: quanto vomito, quante feci etc. etc. Se lo spettatore doveva capire che quel mondo, insensibile, classista e stronzo, è disgustoso e merita al più presto di sprofondare, ebbene sarebbero bastate poche, pochissime inquadrature. Ma evidentemente Östlund in questo film – a differenza di The Square, assai più vario e anche assai più ambiguo nella sua struttura episodica – ha scelto l’anafora come figura retorica di riferimento, ha scelto la ridondanza, appunto.

Come il secondo capitolo si inseriva a pieno titolo nella tradizione del transatlantico in attesa di un’apocalisse in fondo meritata, il terzo capitolo, intitolato “L’isola” si inserisce in un’altra tradizione che se vogliamo parte da Ulisse nell’isola dei Feaci, prosegue con The Tempest di William Shakespeare e Robinson Crusoe di Daniel Defoe, procedendo nel corso del ‘900 verso tutta una serie di opere distopiche, una fra tutte Lord of the Flies (romanzo di William Golding del 1954, film di Peter Brook del 1963) e approdando anche alla narrativa popolare (la serie Lost, 6 stagioni 122 puntate dal 2010) o format triviali (L’isola dei famosi): sopravvissuti su un’isola che devono capire come cavarsela oltreché provare a convivere decentemente. Nella fattispecie i sopravvissuti sono 8, 4 maschi e 4 femmine, la più smart è Abigail, una donna, sul transatlantico faceva le pulizie, di origine asiatica, l’attrice che la interpreta Donna de Leon è filippina, che alla luce dei suoi molteplici skill mette tutte e tutti in riga, provocando di fatto una costellazione, diciamo così, carnevalesca: i poveri sono diventati ricchi, i ricchi sono diventati poveri, le donne, di solito sottomesse, comandano. Non dirò come finisce il film. Ma anche questa terza parte, come la seconda e, riguardando l’intero film a ritroso, anche la prima, è molto molto didascalica, ideologica e soprattutto ridondante. Possiamo solo aggiungere che al termine della visione, il titolo del film assume una più vasta valenza ideologica: i tre capitoli configurano un atteggiamento improntato a un marcato nihilismo, triangolo della tristezza, appunto.

Non eravamo a Cannes nel maggio del 2022, si fa fatica tuttavia a pensare che non ci fossero film migliori di questo. Ma, si sa, a Cannes piace fidelizzare e ribadire al mondo intero che gli autori a suo tempo scelti sono i migliori. Östlund (che per la prima volta dirige un film in inglese) ci mette del suo, dichiarando che il film è il terzo episodio di una trilogia sulla mascolinità. E si sa bene come la consacrazione autoriale passi di frequente attraverso trilogie: Bergman, Kieslowski, Antonioni, Haneke, Linklater docunt.

In sala dal 27 ottobre


Triangle of Sadnessregia, sceneggiatura: Ruben Östlund; fotografia:Fredrik Wenzel; montaggio: Mikel Cee Carlsson, Ruben Östlund; interpreti: Harris Dickinson (Carl), Charibi Dean Kriek (Yaya), Woody Harrelson (il capitano della neve), Zlatko Buric (Dimitry), Iris Berben (Therese), Donna de Leon (Abigail); produzione: 30West, Arte France Cinéma, BBC Films, Bord Cadre Films, Coproduction Office, Film i Väst, Heretic, Imperative Entertainment, Piano Films, Plattform Produktion, Sovereign Films, Sveriges Television, Swedish Film Institute; origine: 2022 Svezia, Francia, Germania, Gran Bretagna, USA; durata: 149′; distribuzione: Teodora Film.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *