American Skin

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Nel settembre del 2019, il regista e attore statunitense Nate Parker sbarca sul Lido di Venezia armato della sua ultima creazione: i protagonisti sono l’ex marine afroamericano Lincoln Jefferson (interpretato dallo stesso Parker) e suo figlio Kajani (Toni Espinosa), vittima di un arresto ingiustificato sfociato inevitabilmente in tragedia. L’intera pellicola ruota proprio attorno all’aggettivo inevitabile, mettendone in dubbio la veridicità e scoprendo la superficiale noncuranza che si nasconde dietro ad una terminologia acquisita attraverso la morbosa triade formata da consuetudine, convenzione e protocollo.

L’assassino di Kajani ha un nome e, con esso, un’identità, una vita, una famiglia, un destino uguale ed opposto a quello del ragazzo ma soprattutto del padre Lincoln: si tratta dell’ufficiale di polizia Mike Randall (Beau Knapp), che dall’incidente uscirà illeso e pronto, con l’appoggio della Corte Suprema, a riprendere il servizio il prima possibile. A quasi due anni di distanza dal suo debutto veneziano, lo scenario tracciato da American Skin (in programmazione su Sky dal 24/5) risulta tanto familiare da intimorirci: sembra di rivivere in anticipo – o col senno di poi – l’orribile spettacolo a cui abbiamo assistito quel fatidico 25 maggio 2020, giorno in cui la proverbiale goccia fece, per così dire, traboccare il vaso. O almeno così è parso a noi, semplici spettatori comodamente stravaccati agli antipodi della Minneapolis che fece da sfondo a George Floyd e ai suoi carnefici.

Reinserendosi nel cammino cinematografico già spianato dalla ruggente Chicago di Ma Rainey’s Black Bottom (George C. Wolfe, 2020, https://close-up.info/ma-raineys-black-bottom/) nonché dai crepuscolari anni ’60 di One Night in Miami (Regina King, 2020, https://close-up.info/one-night-in-miami/ ), il film di Parker si articola quasi come il terzo (e ultimo?) capitolo di una saga secolare: solo che questa volta ci troviamo in un anonimo quartiere di un’anonima città dispersa nella più anonima e pericolosa fra le ere storiche – ovvero, quella del terzo millennio.

La cornice può risultare prevedibile e vagamente retorica, ma ci si chiede se non sia l’effetto di uno status che ci immortala comodamente stravaccati agli antipodi della Minneapolis che fece da sfondo alla morte di Floyd (e di Kajani). Forse l’autore lo sa, e nel giro dei primi dieci minuti cambia registro, affidando la cinepresa al giovane studente Jordin (Shane Paul McGhie) e al suo gruppo d’inesperti documentaristi. L’obiettivo crea così uno spazio fittizio ideale in cui la verità, finalmente libera dal commento mediatico così come dalla virale aggressività social, possa emergere indisturbata, rivendicando il sacrosanto diritto di porre domande anziché lanciare anatemi. Ma non basta: quasi prevedendo la mirabile propensione dei critici all’uso (e abuso) dell’aggettivo “didascalico”, Parker alza la posta in gioco e trasforma Lincoln in un dissidente. Lo arma da capo a piedi e lo conduce in municipio, costringendo Randall e le forze dell’ordine a guardare in faccia il recente passato, rimettendo così in scena un processo mai svoltosi.

È importante ricordare che il tutto avviene all’interno di una dimensione dichiaratamente fittizia – quella plasmata dalla videocamera di Jordin, testimone super partes e al contempo sceneggiatore di una storia diversa rispetto a quella intravista sul piccolo schermo, magari comodamente stravaccati agli antipodi di Minneapolis. Imprigionati nell’universo parallelo di Parker, i personaggi iniziano a dibattere sulla vicenda, a distinguere l’individuo dal sistema che lo ha educato, in poche parole a tracciare una linea di demarcazione sempre più netta fra Uomo e Prassi.

L’impressione è che il set si trasformi a poco a poco in un palcoscenico sul quale ogni verità possa riflettere mettendo in dubbio sé stessa, almeno fino a quando gli avvenimenti non riprenderanno a defluire nel mondo reale e nel suo drammatico epilogo. Il regista dona corpo e voce ai mille volti che quotidianamente s’incontrano accendendo la televisione o aprendo un motore di ricerca, il risultato è confuso e proprio grazie a questo caos illecito l’empatia si emancipa dal cliché. Certo, la posizione del regista appare chiara fin dall’inquadratura d’esordio, eppure essa ha il coraggio di contraddirsi continuamente, portando infine lo spettatore dalla sua parte e mettendo talvolta in luce le debolezze di quest’ultimo. L’infrastruttura scenica ricorda quella di Ma Rainey e dei suoi musicisti jazz, perfino la catastrofe finale ci riporta alla mente il crimine su cui George C. Wolfe chiude il sipario. In fondo, da quel claustrofobico sottoscala schiacciato fra le vie di Chicago (o di Minneapolis) nessuno è ancora evaso.


Cast & Credits

American Skin – Regia: Nake Parker; sceneggiatura: Nate Parker; fotografia: Kay Madsen; montaggio: Billy Weber; interpreti: Nate Parker (Lincoln Jefferson), Omari Hardwick (Omar Scott), Larry Sullivan (Clay Dwyer), Theo Rossi (Officer Dominic Reyes), Beau Knapp (Officer Mike Randall), Michael Warren (Melvin), Shane Paul McGhie (Jordin King), Milauna Jackson (Tayna Jefferson), Sierra Capri (Kai), Evan Dodge (James Randall), Michelle Miracle (Janet), Brighton Sharbino (Megan); produzione: TM Films, Tiny Giant Entertainment; origine: USA 2019; durata: 89’.

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