Una delle grandi fortune di essere giovani, è che si può serenamente peccare d’inesperienza e quando il sottoscritto – alla Conferenza-stampa di presentazione de Il bambino nascosto a Roma – finisce di porre la domanda al suo autore Roberto Andò, questi non può che rispondere sorridendo: «lei ha già fatto una recensione»; eppure poi aggiunge altro e vaga tra parole e silenzi perché «le storie ti fanno entrare dentro una necessità drammaturgica che fanno parlare di più o di meno» e questo è un film in cui eccezionalmente si parla poco. E certo vi è una ragione, come sempre nell’autore palermitano.
Passato fuori concorso alla scorsa Biennale di Venezia, tratto dell’omonimo romanzo dello stesso Andò, sceneggiato insieme a Franco Marcoaldi, Il bambino nascosto racconta l’incontro tra un ragazzo e un maestro di pianoforte. Il piccolo Ciro (Giuseppe Pirozzi) è in fuga dalla Camorra per aver compiuto ciò che non si dovrebbe mai fare mentre Gabriele Santoro (Silvio Orlando) vive nei “Quartieri spagnoli”, pur provenendo da una famiglia della Napoli bene, ed è un uomo che guarda il mondo là fuori dalla finestra, accostando appena le tende e ritraendosi se qualcuno ne cerca lo sguardo. Sono due personalità in fuga da mondi diversi eppure uguali, due persone in cerca di qualcuno capace di riconoscerne il ruolo fino ad allora sfuggito, quello di figlio e quello di padre.
Lo sfondo è quello di una Napoli degradata ma non troppo, una città che non domina la scena ma l’accompagna e mantiene quindi le distanze dalla vicenda; allo stesso modo, a mantenere le distanze e concedere respiro (lungo) – cosa rara nella cinematografia seriale o meno degli ultimi anni – è il tema mafioso, qui incarnato da Diego (Lino Musella), un giovane che coniuga criminalità e amore per la musica, offesa e rispetto per “il maestro”, senza però potersi intromettere nel legame in costruzione tra i due protagonisti. Al massimo può tentare di imitarlo, con una dolce goffezza.
Lo si era già accennato, lo si ripete ora: il cinema di Andò è un cinema ragionato, e questo può piacere come non piacere, essere limite o pregio. È infatti una direzione registica calcolata che non spinge mai la macchina da presa a farsi né invadente né fuggiasca, invero puntualmente rispettosa dell’attore, e forse, si direbbe, troppo per questo tipo di film, per questo tipi di personaggi. È chiaro infatti come un’opera del genere, nel quale la costruzione della relazione padre e figlio è il fondamento, si richieda un’alchimia tra i protagonisti capace di reggere il film e, cosa più complessa, i silenzi all’interno di esso, e non si può dire che tale alchimia sia stata pienamente raggiunta. Le intenzioni ci sono, la strada pure pare tracciata, ma laddove il rapporto tra Diego e il maestro è di una naturalità agra, quello tra Ciro e Gabriele non è risolto fino in fondo, e non perché manchi di sviluppo, bensì perché si ha l’impressione che sia eccessivamente riflettuto nell’osservazione dei due personaggi, o meglio, e si sottolinei, delle persone.
Tema e personaggi sono infatti i poli tra i quali il cinema di Andò è solito fare spola, con i primi spesso a mascherare i secondi. Se Viva la libertà (2013) e Le confessioni (2016) trattavano l’opposizione tra umanità e economia, in questo film il tema è in bilico tra legge e amore, dovere di rispettare, attendere l’intervento dello Stato e necessità di agire da soli, appunto seguendo ciò che la propria emotività, e un istinto paterno nascente, richiede. Ma questo è un’opera particolare, differente dalle precedenti perché pienamente umana, un film di persone più che di personaggi, e lo scarto non è indifferente: nel momento in cui si passa da una categoria all’altra non si ha più a che fare con le parole, bensì con le non-parole, i silenzi. È lo stesso regista a spiegarlo: i due film precedentemente citati erano film sulla politica, «il luogo di una parola che non riesce più a esprimere nulla ma chiaramente la politica si esprime attraverso le parole, il teatro della politica è di parole», mentre qui è diverso, aggiunge, abbiamo il «mistero», e vi «un’altra ritualità, quella del silenzio» e nulla è più difficile di riempire quest’ultimo senza l’utilizzo della voce.
Detto ciò, e lo si dica, questo è uno delle pellicole più interessanti di Andò, vi è una ricerca che va scoperta, oltre il retorico e il detto, e s’inoltra in territori nel quale la mdp non penetra in case o ville ma si apre sugli orizzonti, come l’ultimo, quello con cui si chiude il film.
E c’è anche un finale secondo, che cade come conferma ulteriore di quanto appena detto: al termine della conferenza stampa stringendo la mano al regista, Andò, sorridendo, ci confida: «Alle parole, le dico, preferisco anche io il silenzio». Quanto è bello peccare d’esperienza.
In sala dal 4 novembre
Il bambino nascosto – Regia: Roberto Andò; sceneggiatura: Roberto Andò, Franco Marcoaldi; fotografia: Maurizio Calvesi; montaggio: Esmeralda Calabria; scenografia: Giovanni Carluccio; costumi: Maria Rita Barbera; suono: Fulgenzio Ceccon; interpreti: Silvio Orlando, Giuseppe Pirozzi, Lino Musella, Imma Villa, Sasà Striano, Tonino Taiuti, Gianfelice Imparato, Francesco Di Leva, Roberto Herlitzka; produzione: Bibi Film Tv, Rai Cinema, Agat Films; origine: Italia, 2021; durata: 110’; distribuzione: 01 Distribution.