Animali selvatici di Cristian Mungiu

  • Voto

Il 2007 è un anno chiave per il cinema della Romania. Col suo secondo lungometraggio Cristian Mungiu, all’epoca trentanovenne, vince la Palma d’Oro a Cannes per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, uno di quei film che non accade di vedere spesso, capaci di rivelare un talento e uno stile. Primo film rumeno ad ottenere un premio a uno dei principali festival (c’era stato, è vero, una decina di anni prima Train de vie  di Radu Mihăileanu, ma quello, per quanto importante, era un film storico, riconducibile più a una cinematografia ebraico-orientale, a scanso di equivoci, comunque, in quel film Mungiu era aiuto regista), il film di Mungiu ha svolto funzione di apripista perché da allora la cinematografia romena è diventata una delle più interessanti, riconoscibili e premiate nel panorama del cinema d’autore europeo: basti dire che a Berlino i film rumeni, negli ultimi dieci anni, hanno vinto tre volte: con Il caso Kerenes (2013, Călin Peter Netzer), Touch Me Not (2018, Adina Pintilie) e Sesso sfortunato o follie porno (2021, Radu Jude). Né vanno dimenticati tutti gli autori e le autrici stranieri che – anche grazie al sempre maggiore appeal del cinema rumeno e probabilmente anche in grazia di una sorta di esotismo eastern, di quella che si potrebbe chiamare una verginità delle location – in Romania sono andati a girare attivando anche co-produzioni con quel paese, penso al caso più vistoso ovvero lo straordinario Vi presento Toni Erdmann (2016, Maren Ade; a proposito: recentemente è scomparso Peter Simonischek, l’eccellente attore cinematografico e teatrale austriaco che interpretava il protagonista), ma anche a numerose coproduzioni italo-rumene degli ultimi anni (si vedano film di Bondi, Fusco, Martinelli, ma anche Diaz di Daniele Vicari).

Dopo il 2007 Mungiu non è stato particolarmente prolifico. Ha partecipato a un film collettivo intitolato Racconti dell’età dell’oro, incentrato su leggende metropolitane del suo paese (un progetto nato ancor prima del film risultato vincitore a Cannes) e poi, rispettivamente nel 2012 e nel 2016, ha girato altri due film, il cui titolo italiano suona Oltre le colline e Un padre, una figlia, entrambi presentati in concorso a Cannes, entrambi usciti dalla Croisette con qualche premio in mano (il primo sceneggiatura e interpretazione femminile, il secondo la regia), di cui si è parlato in questa rivista.

E sei anni dopo, sempre a Cannes, Mungiu ha presentato R.M. N., questo il titolo originale (vedi sotto). E, per la prima volta su quattro, è uscito dal concorso a mani vuote. Diciamo fin da subito che la scelta della giuria la si può considerare condivisibile perché il film del regista rumeno che si muove sempre e comunque nella zona alta della classifica del cinema d’autore europeo non è affatto immune da pecche: è un film ridondante, con una sceneggiatura a tratti caotica, con un simbolismo un po’ elementare e una gestione confusa dell’impianto corale a cui intende dare vita.

Due parole sull’intreccio. Non esattamente uno stinco di santo, il primo personaggio di cui facciamo la conoscenza si chiama Matthias e lasciata in tutta fretta una fabbrica in Germania se ne torna al paesello in Transilvania, non proprio un nostos ma una fuga. Scopriamo che a casa aveva lasciato nell’ordine: Ana, la madre del figlio (la moglie?), il figlio Rudi e l’amante Csilla, il padre che sta progressivamente degenerando sul piano cognitivo. Il figlio è affetto da un mutismo post-traumatico: attraversando il bosco si è imbattuto in qualcosa che non sappiamo (una persona? un animale?), il controcampo ci viene negato, così si apre il film. Ana è sopraffatta e risentita nei confronti di Matthias. Csilla, dal canto suo, non ha neanche lei un rapporto proprio risolto con Matthias, uomo silenzioso che maneggia con una certa disinvoltura le armi. Csilla che nei ritagli di tempo si dedica alla musica (suona il violoncello e ascolta Shigeru Umebayashi) è la vice della locale imprenditrice, titolare di un panificio industriale. E poi ci sono gli abitanti del villaggio, di un villaggio di confine contrassegnato da una pronunciata multietnicità, le due etnie dominanti sono quella rumena e quella ungherese, ma alcuni parlano anche tedesco (i tedeschi quella zona la chiamano Siebenbürgen), difficile trovare nel cinema europeo un film in cui si parlano più lingue. Uno direbbe: in un posto così la convivenza con l’altro, con gli altri è più facile che altrove. Manco per idea. Già in passato si capisce che il villaggio ha condotto una vittoriosa battaglia con l’etnia rom, che adesso è stata spazzata via, ci immaginiamo bene come. Quanto al presente: l’assunzione da parte del panificio di tre impiegati provenienti dallo Sri Lanka scatena nella popolazione il peggio del peggio, facendo salire i più luridi rigurgiti nazionalisti, sovranisti, razzisti. Tutte cose, argomentazioni o presunte tali che, figuriamoci, conosciamo fin troppo bene senza che ci sia bisogno di andare in Romania, e che Mungiu racconta con una certa qual  ridondanza sadomasochista, per esempio nella lunghissima scena del dibattito nella sala consiliare sul destino da riservare agli ospiti indesiderati (quattordici minuti!) in cui la macchina da presa non si muove mai. Si esce dalla visione di questo film non proprio rincuorati sulla natura degli esseri umani, prigionieri di una irriducibilità antropologica che non conosce differenze di fondo in ogni parte del globo, talché il titolo italiano, pur diversissimo da quello originale, è per una volta in grado di intercettare la sostanziale ambiguità dell’assunto: si parla, è vero, lungo tutto il film del pericolo proveniente dai boschi circostanti relativo alla presenza di animali selvaggi (gli orsi avanti a tutti, i recenti dibattiti sull’abbattimento di JJ4 fanno capire ancora una volta che tutto il mondo è paese), ma i veri animali selvaggi sono gli esseri umani – e il merito (a tratti: il demerito) di Mungiu è di non lasciare niente di non detto, di scandagliare a fondo gli abissi dell’animo umano, dominato da impulsi di sopraffazione e di esclusione. Le uniche alternative previste, ma clamorosamente inefficaci, sono il dialogo, la comprensione, l’accoglienza, esemplati da Csilla (che ascolti la colonna sonora di In the Mood for Love appare quasi patetico in un mondo in cui l’odio regna sovrano) e dal volontario francese che è venuto fino in Transilvania a mappare la presenza degli orsi. Ma sono voci che predicano nel deserto.

Due parole sul titolo originale che, come si diceva, suona R. M. N. ; si tratta dell’acronimo rumeno per la risonanza magnetica, a cui viene sottoposto il padre di Matthias, equivalente diagnostico dello scandaglio a cui Mungiu sottopone il proprio paese che, con voluta ambiguità, è riassunto da quelle medesime tre consonanti.
Lo ripetiamo ancora una volta: un film certamente di alto livello ma avanziamo l’ipotesi che la coralità non sia la dimensione nella quale Mungiu si esprime al meglio.

In sala dal 6 luglio
Si veda anche la nostra intervista al regista


Animali selvatici (R. M. N.)Regia, sceneggiatura: Christian Mungiu; fotografia: Tudor Vladimir Panduru; montaggio: Mircea Olteanu; interpreti: Marin Grigore (Matthias), Judith State (Csilla), Macrina Bârlădeanu (Ana), Orsolya Moldován (la signora Dénes), Andrei Finti (il padre Otto), Mark Blenyesi (Rudi); produzione: Mobra Films, Why Not Productions, France 3 Cinema, Les Films du Fleuve, Film i Våst; origine: Romania/Francia/Belgio, 2022; durata: 125 minuti; distribuzione: BIM.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *