Animali selvatici – Intervista al regista Cristian Mungiu

In occasione dell’uscita italiana di Animali selvatici, l’ultima potente e lucida opera di Cristian Mungiu, abbiamo dialogato con  il grande cineasta rumeno intorno a delle questioni che riguardano il suo film, il suo cinema e il suo modo di osservare e raccontare il mondo che lo circonda e gli esseri umani che lo abitano (F.C.).

Domanda: Fin dall’inizio il film sembra attraversato da una sensazione di minaccia che rimane fuori campo, ma di cui si sente la costante, incombente presenza, come accadeva nel tuo film precedente Un padre, una figlia (2016). Puoi parlaci di questa scelta sia estetica che drammaturgica?

Risposta: Ci sono due ragioni. Per prima cosa, per me è importante che i miei film comunichino non solo ad un livello informativo, ma anche emozionale, sensoriale, visuale e astratto. Tra i molti altri temi, Animali selvatici parla della paura come elemento profondamente determinante per le nostre azioni: la paura di ciò che è sconosciuto, dell’altro, della vita stessa e, per quanto riguarda l’ansia, di un futuro incerto che rende la fine del mondo come la conoscevamo più vicina di quanto sembrava qualche tempo fa. Voglio che lo spettatore non solo scopra quello che provano i personaggi principali, ma voglio anche farglielo sentire. La seconda ragione è circostanziate: faccio film d’autore, ma so di essere in competizione  per ottenere attenzione da parte degli spettatori che guardano per la maggior parte cinema mainstream. Perciò il mio scopo è essere capace di raccontare storie piene di significato in un modo in cui gli spettatori facciano esperienza della stessa tensione, dei brividi, delle emozioni mentre le guardano, anche se non uso pistole o incidenti automobilistici, e non aggiungo musica o troppo montaggio.


Nel raccontare la comunità di questo piccolo villaggio hai utilizzato in maniera prevalente piani sequenza girati in campo lungo e lunghissimo, altra tua caratteristica dal punto di vista stilistico, in questo caso particolarmente significativa visto che affronta la difficile integrazione tra persone di culture, lingue ed estrazioni sociali differenti. Puoi parlaci di questo aspetto del tuo modo di girare?

Penso che gli autori debbano avere alcuni principi estetici ed etici che rispettano non perché qualcuno li costringa a farlo ma perché corrispondono alla loro visione dell’arte. Il mio cinema è ispirato dalla realtà, non da altri film, e il mio scopo è realizzare scene che sentano il più possibile la vita, visto che credo che questo è un particolare aspetto del cinema come arte: rivelare e registrare le azioni che avvengono durante un dato intervallo di tempo. Ma questo è possibile solo a condizione che si metta in scena proprio tutto,  in ogni ripresa. Perché montare è un modo di usare il proprio potere come regista per selezionare momenti che si considerano rilevanti ed eliminare quelli che non possono esseri utilizzati. Ma la vita non è cosi, non abbiamo il diritto di eliminare i nostri momenti sciocchi o ingloriosi, dobbiamo viverli tutti.

L’altro principio fondamentale è che voglio osservare le azioni, non commentarle o interpretarle – perciò ho bisogno di rendermi il più possibile invisibile come cineasta, visto che il cinema è già un’arte molto manipolativa – e la manipolazione potrebbe essere scrutata e ridotta al minimo; è frivolo e inautentico utilizzare i soliti facili trucchi per impressionare gli spettatori. Perciò un’altra regola principale di questa estetica è che la camera non si muova finche non segue un movimento all’interno della ripresa. Questo influenza ad un grande livello la messa in scena e permette di capire come usare il fuori campo, la profondità di campo e il suono per raccontare una storia che sarà sempre più grande di quello che le persone vedono sullo schermo dal momento che, di nuovo, come nella vita reale, non si hanno risposte a tutte le  domande alla fine e si vive da una  prospettiva molto soggettiva; quello che succede a qualcun altro nello stesso momento da qualche altre parte lo puoi solo presupporre.

Il lavoro su ciascun personaggio è nel segno di una complessità e di un’ambiguità che contribuisce a stimolare riflessioni e domande. Ad esempio Matthias, rude e solitario, ma bisognoso al tempo stesso di tenerezza e di un’appartenenza. Come è stato il processo in fase di scrittura della sceneggiatura e poi di lavoro con gli attori sul set?

La vita è ambigua e arbitraria, sta a noi interpretarla in modo da poterla gestire, e perciò dovrebbe essere così anche per un film. Noi, come persone, siamo spesso incoerenti, emozionali, irrazionali, un mix di decisioni contraddittorie ed impulsi. Quando io scrivo, devo essere sicuro di capire perché qualcuno agisce nel modo in cui agisce, quali sono gli obiettivi del personaggio, ma quando le loro azioni e i loro comportamenti, le loro battute subiscono un processo per cui diventano ambigue, riscrivo per essere sicuro che i personaggi non si reggano in piedi per qualcosa, un carattere, un’ideologia o tutto ciò che non abbia a che fare con l’essere il più possibile umani, con buone e cattive intenzioni, con momenti di grazia ma anche con difetti, con azioni razionali ma anche emozionali.

A volte i personaggi capiscono cosa succede loro e il perché, a volte no, a volte mentono e sono manipolati, a volte soffrono. E certamente, come sceneggiatore, a volte riesco a rendere meglio questo aspetto,  a volte no, dal momento che le regole della narrazione determinano il fatto che si diano informazioni e si mantenga la coerenza, visto che la logica di un film è più limitata di quella della vita. Ho scritto per i miei attori intere biografie dei loro personaggi e ho descritto le loro relazioni con gli altri personaggi nel dettaglio e nella scrittura. Inoltre, evito di sovrainterpretare delle cose per loro, hanno bisogno di relazionarsi con la verità di ogni particolare momento, non con il generale significato della storia o l’evoluzione del loro personaggio. Ho evitato per un po’ di tempo di dare la sceneggiatura completa agli attori, e non per  una mancanza di rispetto nei loro confronti ma perché per un film come Animali selvatici è controproducente. Matthias non sa cosa fa Csilla quando non è con lui, cosi quando lei dice che è dispiaciuta alla fine del film, lui è perplesso come lo sono gli spettatori. Solo che gli spettatori conoscono il punto di vista di lei, cosi sono in una posizione migliore per poterlo capire.

I personaggi femminili sembrano possedere, a parte una più pragmatica, concreta, solidale capacità di affrontare le questioni problematiche in cui si trovano coinvolte  – penso alle due amiche di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni e in questo caso alle due proprietarie del panificio che assumo gli operai stranieri. Puoi parlaci della tua visione della donna all’interno della società rumena?

Non penso ai miei personaggi nei termini di maschile e femminile, e non penso a loro come rumeni, ma come persone, esseri umani che io osservo e dei quali riporto il comportamento. Credo che come sceneggiatore, o si capisce la psicologia delle persone, come ragionano, si comportano e parlano – e allora puoi scrivere di loro – o non si  capisce. Alla fine, ritengo che tutti i miei film siano in qualche maniera studi sulla natura umana, sulla condizione del mondo e sulle circostanze nelle quali certi personaggi compiono delle decisioni. Il processo è affascinante, la moralità delle loro decisioni non è sotto il mio controllo.

Il tuo film può essere visto come un rappresentazione della difficoltà di formare e costruire un’identità europea?  Penso, ad esempio alla scena agghiacciante dell’assemblea cittadina.

Certo, può esserlo. Perché anche se l’Unione Europea è il miglior progetto che abbiamo e siamo d’accordo su alcuni comuni principi umanitari, dobbiamo riconoscere che non possiamo essere una nazione, che ci sono molte differenze tra di noi dal punto di vista della ricchezza, dello sviluppo storico, della cultura, delle abitudini, delle tradizioni, etc. È meraviglioso e necessario avere grandi obiettivi comuni, ma non dovremmo lasciarsi sedurre dai nostri ideali, il mondo è cosi com’è, non come vorremmo che fosse. L’Europa include ex stati coloniali che cercano di riparare oggi per le sfortune che hanno creato in passato ma i paesi più deboli  sentono di non aver avuto benefici durante il periodo coloniale, cosi perché dovrebbero essere  parte di questo comune sacrificio dal momento che non hanno contribuito alla rovina. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa dell’est è stata abbandonata e data ai Sovietici a causa del realismo geopolitico ma idealmente gli occidentali non avrebbero guardato a questi stati nel momento in cui nessuno di loro avesse rinunciato a diventare comunista. Un po’ meno ipocrisia avrebbe aiutato e ridotto questa enorme distanza tra quello che le persone dicono e quello che realmente pensano debba aiutarle.

E cioè?

Animali selvatici spera di essere qualcosa di più che un film che parla dell’ Europa. C’è una riflessione sulla nostra natura duale, in parte di esseri umani capaci di empatia e di perdono, in parte di animali con impulsi, paure, una natura violenta, risentimenti nei confronti di chi è diverso da noi, con una naturale inclinazione a considerare gli altri più dei potenziali nemici appartenenti a una differente tribù che creature della stessa specie. La storia del mondo è in gran parte una lista di inconcepibili crudeltà che persone hanno compiuto contro altre persone per ragioni di differenze tra le loro tribù, per avidità, a causa di pregiudizi o per paura più che una lista di buone azioni nelle quali le persone esprimono sostegno ai loro compagni che ne hanno bisogno. Prendiamo la reazione degli stati di fronte al covid, per esempio: non appena si è trattato di una questione di vita o di morte, tutta la solidarietà è stata dimenticata e ogni stato ha cercato di aiutare i propri cittadini, e questo fa parte di ciò che siamo, del nostro istinto di sopravvivenza nel quale il più forte sopravvive. La stessa democrazia è stata proposta ed imposta da persone educate a una massa riluttante – riluttante rispetto alla richiesta di uno sforzo – ma per un po’ ha funzionato. Ora le persone sembrano essere stanche della democrazia – preferiscono lasciare che decida qualcun altro – e quando il meccanismo democratico è logorato, spesso fallisce nel  proporre soluzione etiche – come nella situazione dell’incidente che ha ispirato il film e cioé da quando i cittadini di quel villaggio hanno deciso come maggioranza che non vogliono accettare cittadini stranieri nella loro comunità. La democrazia funziona a condizione che si investano tempo e risorse ad educare le persone prima che esprimano le loro opinioni. Ma è ancora realistica questa idea di comunicazione di massa, data la valanga di informazioni, fake news e  manipolazioni portate da internet vengono usate dai gruppi populisti?

Come credi stia cambiando il rapporto tra natura e civiltà, in particolare rispetto al manifestarsi della violenza? È in atto una sorta di regressione, di ritorno ad un cupo homo homini lupus?

Direi piuttosto che gli esseri umani non si sono evoluti tanto quanto affermiamo. Siamo ancora esseri molto violenti e impulsivi, capaci di atti terribili  – in qualsiasi guerra, le persone hanno bisogno di 24 ore per considerare i loro ex vicini come nemici che meritano di essere violentati, torturati e uccisi. Sì, l’umanità si è evoluta – soprattutto tecnologicamente – ma si è evoluta anche eticamente? Probabilmente non nella stessa misura, poiché l’empatia, la tolleranza e la generosità sono legate al raggiungimento di una certa prosperità sociale.

Noi non capiamo quanto siamo egoisti e irresponsabili osservando il degrado della natura, ci preoccupiamo solo che le risorse finiranno prima di quanto crediamo, ma questo attiva lo stesso un vecchio meccanismo di sopravvivenza: spingere gli altri fuori dalla barca, così potremmo vivere un giorno in più. Nessuno dice che la situazione sia semplice – e questo sarebbe semplicistico – ma il primo passo per tentare di risolvere profondamente le cose è dialogare con persone che hanno opinioni diverse dalle nostre. Non aiuta vietare alle persone di esprimere ad alta voce le loro idee sui migranti, sulle razze, etc. Non cambierebbe quello che pensano.

Nel film un padre muore impiccato…in termini simbolici cosa rappresenta quella sequenza, per altro girata immediatamente dopo quella dell’assemblea cittadina?

Non vorrei  sovrainterpretare il mio film e non credo in un tipo di cinema con una sola interpretazione verbale, questo sarebbe riduttivo in molti sensi. Ma ovviamente si parla di non perdere la speranza, di non riuscire a fare i conti con i cambiamenti del mondo, di dubitare che questi vadano nella giusta direzione, della paura del futuro per i nostri figli e per il genere umano. Ma c’è una buona notizia, comunque: apparentemente l’unica parte del nostro cervello che si sta evolvendo è quella del lobo centrale, quella connessa con l’empatia… quindi, chi sa?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *