Dachau come Auschwitz, i famigerati Konzentrationslager (KZ), sono nomi che evocano uno dei momenti storici più drammatici della storia recente, luoghi dove la memoria dell’atrocità assoluta si è sedimentata nell’immaginario collettivo di chi predica (ancora) il valore sempiterno dell’umanità e dei suoi diritti.
Sui campi di concentramento sono stati fatti tanti film – parecchi, la maggioranza, forse di discutibile valore e dal carattere quasi pornografico e non mi riferisco solo alla cosiddetta “nazisploitation” di anni lontani– altri invece sono stati e restano veramente memorabili. Ad esempio, per restare solo sul terreno documentario, ricordiamo il breve Notte e nebbia (1956, poco più di una sconvolgente mezz’ora) con cui Alain Resnais ha aperto gli occhi ad una intera generazione postbellica oppure il monumentale (544 minuti) Shoah (1985) di un altro grande regista francese Claude Lanzmann, che ha segnato un vero spartiacque mondiale nell’appercezione dell’orrore dell’Olocausto.
Abbiamo ricordato queste due capolavori assoluti della Storia del cinema non per fare dei paragoni di valore che non sarebbero appropriati ma solo per constatare come al giorno d’oggi, dopo kilometri e kilometri di pellicola e un’enorme massa di documenti audiovisivi, sia molto difficile, per non dire quasi impossibile, ridestare le emozioni e rievocare lo strazio di una immensa ferita storica che non ha eguali nel secolo breve delle immagini in movimento.
Da questo punto di vista, soprattutto nella sua parte conclusiva veramente straordinaria, C’è un soffio di vita soltanto, l’ultimo lavoro di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini (Et in terra pax, 2011; Il contagio, 2017), alla loro prima esperienza nel campo della non-fiction, ha per me il grande merito di riuscire a comunicare in modo tangibile, sulla pelle, quel trauma insanabile ma ormai remoto che le celebrazioni (pur giuste) delle “Giornata della memoria” o i tanti prodotti corrivi tendono invece a ritualizzare e quindi a rendere innocue, poco utili come monito.
Ma andiamo per ordine: il film della coppia di registi romani – presentato in anteprima allo scorso Festival di Torino e adesso visibile anche in sala – nasce e si sviluppa in una sorta di pedinamento ravvicinato ad una persona molto particolare, quella di Luciana/o Salani (detta Lucy), la transessuale più anziana d’Italia che è stata ripresa nel corso di mesi nella sua casa nella periferia di Bologna, la maggior parte del tempo da sola, altre volte in compagnia di chi la frequenta.
Ultranovantenne ma con una lucidità estrema ed invidiabile, ancora in grado di guidare l’automobile e condurre una vita non troppo invalidante, Lucy racconta alla macchina da presa le stazioni della sua vita, dalla sua giovinezza al suo voler essere donna, e alla detenzione appunto nel campo di concentramento di Dachau di cui resta uno/a delle pochissime/i sopravvissuti ancora in vita. Infatti, il film si apre, dopo il titolo, proprio con l’arrivo di una lettera in cui – poi lo scopriremo – la si invita a partecipare all’annuale raduno organizzato nella cittadina nei pressi di Monaco per ricordare quel tragico luogo. L’evento a causa della pandemia non si terrà ma la vedremo alla fine entrare su una motocarrozzina nel campo e attraversarlo – ripresa in un campo lunghissimo – mentre si avvicina alle baracche e poi riguardare l’ambiente circostante, in una sequenza finale molto toccante dove, riflettendo sull’esistenza di Dio e sulla natura umana, ci dice che sarebbe meglio andare a vivere in un altro pianeta. Evidentemente migliore del nostro.
Nel raccontare una lunga fetta del Novecento con la guerra e il grande orrore vissuto nel KZ (ma anche con tanti intermezzi di serenità), la protagonista del bel doc del duo Coluccini/Botrugno, riflette non soltanto sulla propria tragica esperienza personale ma anche, insieme, sulla sua identità di diversa che da sempre combatte – pur con voce sommessa – per mantenere integro il diritto ad esser come è e vuole essere (“chi l’ha detto che una donna non può chiamarsi Luciano?”).
Senza proclami filosofici ma con il sano buonsenso di chi è scampato alla morte certa o quasi, ci ricorda nelle sue considerazioni individuali spesso sorprendenti per la loro semplicità e schiettezza, oppure nei dialoghi con le persone amiche che la accompagnano, l’aiutano o le sono vicine, come non ci deve sottomettere a quanti vogliono cancellare con un tratto di penna ogni traccia di alterità. Insomma, un piccolo, grande inno alla tolleranza e alla comprensione in un mondo che troppo spesso le ha calpestate e continua a farlo.
In sala dal 10 gennaio
Cast & Credits
C’è un soffio di vita soltanto – Regia e sceneggiatura: Matteo Botrugno e Daniele Coluccini; fotografia: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini, Luca Matteucci; montaggio: Mario Marrone; musica: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini; interpreti: Lucy Salani, Porpora Marcasciano, Simone Cangelosi, Ambra Guarnieri, Louise Lisette Ngo Nyoung, Said Halssoussi, Maria Pelizzari; produzione: Matteo Botrugno, Daniele Coluccini, Simone Isola, Giuseppe Lepore, Flavia Oertwig per Blue Mirror, Bielle Re e Tama Filmproduktion; origine: Italia/Germania, 2021; durata: 95′; distribuzione: Kimerafilm.