Faith, Hope and Charity di Alexander Zaldin

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Con Faith, Hope and Charity, ultimo capitolo di una trilogia dedicata all’intimità in tempi di crisi nella quale si colloca il fortunato Love, Alexander Zaldin, artista inglese, ci ricorda come il teatro inglese contemporaneo sia un teatro di distanze limate tra persona, personaggio e sentimento, nel quale è il fulcro è la persona – il risultato dei suoi drammi passati. Se l’intimo si mangia l’esterno, persona mangia personaggio, persona e sentimento hanno una loro gerarchia nella quale nuovamente la persona ‘vince’ perché utilizza sentimento ed emozioni come strumento primo per rivelarsi. È d’altronde un teatro condensato e tiepido, un teatro di persone perché i loro drammi ribollono in superficie senza che mai si ecceda.

Un centro comunitario, ai margini della città. Fuori cade la pioggia, un poco di pioggia cade pure dentro e tra lenzuola e mura bagnate una panoramica della vita umana cammina sul palcoscenico: Hazel prepara il pranzo, il vecchio Bernard che vive nel quartiere cerca di scambiare qualche parola con qualcuno, Carl guarda tutto dalla sua sedia, Beth si batte per l’affidamento di sua figlia mentre Mason, un nuovo volontario, si propone di fondare un coro.

Loro vivono come personaggi che cercano di convivere con altri personaggi, come appunto un coro nel quale una voce non vuole disturbare l’altra, ma poi succede quel qualcosa, un gesto minimo che per qualcuno è innocuo ma per qualcun altro non lo è – la visione di un video, il canto, una parola di troppo, un piatto che cade – e la maschera cade: una persona picchia il pugno sul tavolo, una persona piange in un angolo, una persona si ritira in cucina, una persona ne bacia un’altra senza che le due bocche abbiano il medesimo obiettivo. E qualcuno si rinchiude il bagno perché no, non vuol far vedere chi lui in fondo in fondo sia. E tutto in modo dilazionato, perché quella è umanità e l’umanità non vive solo di pianti esplosivi ma di continui singhiozzi trattenuti e gesti minimi: la realtà è nuda, si mostra la delicatezza, l’ironia e la fragilità dell’esistenza umana come è nel suo correre giornaliero.

Il teatro inglese contemporaneo è un teatro pacato. È un teatro che non cerca il melodramma, e se i sentimenti li mette in gioco non li amplifica gratuitamente, non schiamazza né si divincola, piuttosto li snocciola un grano alla volta come la successione delle Ave Maria del rosario perché quella data sfera emotiva – che sia un desiderio come l’ambizione e la vendetta, o un sentimento come l’amore e la paura – abbia un’origine, un processo e un infine termine. È il percorso, e come viene camminato passo per passo, che è importante, come importante è che a viverlo sia un umano: non il personaggio, ma la persona che si nasconde dentro la schiena del personaggio. Ne risulta che desiderio o sentimento o emozione debbano vivere per sussulti, sopiti dietro la scorza dello stereotipo e pronti a sgusciare fuori appena il personaggio mette un piede in fallo e la maschera scopre parte del volto. Ma mai, quei sentimenti, emozioni e sensazioni vivranno di vita loro, astratta. Mai si mangeranno in un sol boccone persona e personaggio perché alla fine c’è una grande verità e sta nel titolo:

Faith, Hope and Charity

Sono emozioni, ma possono essere altro. I nomi dei propri figli, mariti, mogli e fratelli. Nomi di persona prima che emozioni.

 

Spettacolo andato in scena dal 3 al 6 novembre al Teatro Argentina, evento REF.


Faith, Hope and Charitytesto e messa in scena: Alexander Zeldin; scenografia e costumi: Natasha Jenkins; luci: Marc Williams; suono: Josh Anio Grigg; movimenti: Marcin Rudy; musiche: Laurie Blundell; assistente alla messa in scena: Josh Seymour; collaborazione alle luci: Breandon Ansdell

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