Festa del Cinema di Roma: Steno di Raffaele Rago

  • Voto

Steno il regista e Steno l’uomo, anzi il galantuomo, che regalò fiori a Audrey Hepburn e lei rimase colpita dall’eleganza di quel signore quasi «ottocentesco». Così lo definisce Diego Abatantuono: uno dei tanti intervistati nel documentario di Raffaele Rago, Steno, appena presentato alla Festa del cinema di Roma (sezione Storia del cinema). Del resto di aggettivi abbonda questo lavoro, di definizioni, aneddoti e ricordi, anche se Enrico Vanzina, uno dei due figli di Steno – l’altro era Carlo, scomparso anni fa – spiega che è impossibile definire suo padre con una parola.

Eppure inizia così il film, con tentativi di sintesi, con lampi descrittivi: Giuseppe Tornatore, che è un grande regista, ma quando parla di cinema italiano è (quasi) ancora meglio – perché gli viene un sorrisetto innamorato che rende profumata, dolce, saporita fino al magnetismo ogni parola della sua sterminata conoscenza – lo definisce un «marchio», volendo dire che quando compariva Steno in cima a un film voleva dire che si andava sul sicuro. Anche lui torna, oltreché sul cineasta, sulla qualità della persona, sulla compostezza dei modi, sul rispetto per tutti: non era altro che un giovane appassionato di cinema, all’inizio degli anni Ottanta, Peppuccio da Bagheria, un innamorato pazzo della settima arte e quando chiese un’intervista a Steno, questi fu delizioso nel concedersi. E giù altri aggettivi, tra cui uno interessante estrapolato ancora da Enrico Vanzina: «buffo» parola chiave per modellare questo lungo ritratto a parole di Steno, strumento caratteriale del maestro utile per trovare l’empatia e l’affinità con mostri come Totò e Alberto Sordi, per esempio, e più in generale per nuotare a proprio agio, in modo naturale, nel cinema comico e in quello di commedia, di cui fu maestro assoluto. Oggi pilastro, archetipo, monumento. Ed ecco che pian piano, l’uomo e il regista si incontrano, si fondono, si spiegano a vicenda, attraverso un bel corteo di amici – di generazioni diverse – che lo raccontano e prima ancora lo inondano d’affetto: Marco Risi, Claudio Amendola, Eleonora Giorgi, Giovanna Ralli, Lino Banfi, Caterina D’Amico, Massimo Ranieri, Neri Parenti, Teo Teocoli, Umberto Smaila, Fabio Frizzi, Maurizio Micheli, Guido De Angelis, tra gli altri, tra i tanti, oltre ai già citati.

Steno era «umile» dice Smaila; era colto, gli fanno eco tutti gli altri, in coro: gran maneggiatore dell’arte e della letteratura. Ai figli, oltreché l’eleganza – «sono un regista che va a girare in giacca e cravatta», diceva – e ai modi raffinati, ai valori della vita, insegnò questo: a leggere romanzi, conoscere l’arte figurativa e la musica. Certamente, inevitabilmente, anche il mestiere amato: il cinema, per spontaneo contagio. Del resto Caterina D’Amico dice una cosa semplice ma vera: che ai figli si insegna ciò che si ama. Ed ecco, tra i ricordi di Enrico, certi punti fermi inossidabili: «Il regista di commedia non si deve vedere», diceva suo padre. «Da steno imparai il ritmo: pochi piani sequenze e molte inquadrature», rammenta Neri Parenti, aggiungendo altri vocaboli di un racconto fatto principalmente di voci e volti narranti, con uno schema semplice, privo della ricerca di un’idea narrativa particolare. Un viaggio sobrio, che obbligatoriamente, anche se fugacemente, torna al “Marc’Aurelio” dove Steno (come altri grandi) cominciò, e dove assunse Fellini dopo avergli chiesto di fare un disegno; ai rapporti di Steno con Mattoli e con Soldati, quello importante con Mario Monicelli (si dividevano il lavoro senza problemi, uno con gli attori e l’altro alla macchina da presa) passando per la guerra e arrivando alla storia del cinema italiano da lui scritta per immagini e dialoghi: Steno e la nascita della commedia all’italiana (Guardie e ladri, 1951), Steno e il primo film italiano non in bianco e nero (Totò a colori, 1952), Steno e i maccaroni di Sordi (Un americano a Roma, 1954), Steno inventore del poliziottesco all’italiana (La polizia ringrazia, 1972), dove si firmò Stefano Vanzina, anziché Steno, e un giornalista siciliano, ricorda ancora Enrico, parlò di regista «esordiente». Steno graffiante, sarcastico, osservatore critico del costume, Steno persino collaboratore per “Il giornale” di Indro Montantelli; soprattutto, però, Steno uomo di cinema che viene fuori per la sua capacità di far lievitare ed esplodere il comico. Micheli ricorda una sua frase: «Il pubblico si diverte se l’attore si diverte»; Tornatore parla di «disinvoltura dell’attore comico» nei film di Steno, di un saperlo far rendere al massimo lasciandolo il più libero possibile. A Totò, per esempio, non dava mai lo stop, perché alla fine di una scena era sempre in grado di creare qualche numero . Insomma, la ciccia c’è, in Steno di Raffaele Rago, compresi certi repertori del regista stesso: su tutti quello in cui racconta proprio di Totò sul set, che di mattina non voleva lavorare (perché di mattina non si deve far ridere) ma poi andava avanti da grande professionista fino a sera, quando cominciava a fischiettare e tutti capivano, e Steno li mandava tutti a casa. Si sorride, ma si prova anche tenerezza, in Steno, davanti al racconto della moglie Maria Teresa, mamma amata e bellissima di Carlo ed Enrico. Perché di nuovo cinema e vita dialogano, in questo documentario che indirettamente, sottilmente parla anche di amicizia e di un tempo importante e ogni giorno più lontano, che dobbiamo tenere vivo col cinema stesso, perché a modo suo, in tutta la sua leggerezza, è strumento della memoria.


Steno – Regia: Raffaele Rago; sceneggiatura: Raffaele Rago, Nicola Manuppelli; fotografia: Vincenzo Taranto; montaggio: Raffaele Rago; musiche: Claudio Sanfilippo;  produzione: World video Production; origine: Italia,2022; durata: 75′.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *