C’è un momento, secondo me, decisivo nell’ultimo film di Francesca Comencini dove il protagonista, Luigi Comencini, interpretato in modo perfetto da Fabrizio Gifuni, pronunzia una battuta il cui senso più o meno è il seguente (vado a memoria): “ho fatto una quarantina di film e non ho mai parlato di me stesso, lei fa il suo primo ed è autobiografico”. Il “lei” sarebbe riferito a Francesca mentre il film a cui si accenna, è il primo lungometraggio realizzato dalla terza figlia del grande regista lombardo, Pianoforte (1984), una drammatica confessione sulla condizione di passata tossicodipendenza della ventitreenne autrice alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa. In questa semplice frase sta tutta la fondamentale differenza tra il cinema classico e quello moderno autoriale non hollywoodiano, dove appunto l’aspetto intimo e personale è diventato il motore fondamentale, la benzina indispensabile della macchina-cinema d’autore. E questo potrebbe essere anche un primo indizio per capire meglio la distanza nella relazione padre-figlia tematizzata, in modo programmatico, da Il tempo che ci vuole.
Per la cronaca sono passati ben sette anni dalla sua ultima opera per il grande schermo, Amori che non sanno stare al mondo (2017), e Francesca Comencini ha realizzato ora, forse, il miglior film della sua carriera, ancora una volta attingendo a piene mani dalla materia autobiografica e cioè raccontandoci il complesso rapporto d’Edipo con il padre Luigi.
“Dopo tanti anni – ha dichiarato la filmmaker romana – passati a fare il suo stesso lavoro e a cercare di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto gli devo tutto quello che sono: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere, all’importanza che il suo lavoro e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, e all’importanza che la sua persona ha avuto per me. Forse, mi sono detta, forse ora sono abbastanza grande, ne sono capace, forse ora sarò all’altezza di questa storia. Forse è arrivato il momento di dirgli grazie” – e così è stato, per fortuna anche di noi spettatori.
Il tempo che ci vuole, infatti, è un’opera affascinante e commovente che funziona e opera su una efficace semplificazione dei personaggi in campo. Spariscono così gli altri componenti della famiglia, le tre altre sorelle, tutte, per altro, dedite anche loro ai mestieri del cinema, oltre la madre – cosa non da poco – per concentrarsi quasi fosse uno stringente Kammerspiel psicologico (la regista ha parlato di “teatro della memoria”) sul rapporto esclusivo e totalizzante che si viene instaurando tra i due protagonisti: il padre, appunto, e la figlia, vista prima a circa otto anni (Anna Mangiocavallo,) e piano piano cresciuta adolescente ribelle e problematica (per l’efficace interpretazione di Romana Maggiora Vergano). E poi intrecciate seguono anche le lavorazioni (ricostruite) e i set di film come Le avventure di Pinocchio (1972) o appunto quelle di Pianoforte. A completamento – sarebbe stato impossibile altrimenti – si vanno aggiungendo alcune sequenze di film amati da Comencini (che tra l’altro è stato il co-fondatore della Cineteca italiana di Milano), per esempio, un antesignano Pinocchio (1911) di Giulio Antamoro, L’Atlantide (1932) di Georg Wilhelm Pabst, il seminale Paisà (1946) di Roberto Rossellini per finire a L’enfance nue (1969), il primo lungometraggio di Maurice Pialat – e ci siamo dimenticati di sicuro qualcosa.
Insomma, cinema e vita, a braccetto, mischiati come meglio non si potrebbe – con la figura di Pinocchio che spesso riemerge. Il tempo che ci vuole non solo ricostruisce, ci avvicina e ci fa conoscere in maniera affettuosa (anche nelle sue piccole, inevitabili rudezze) la figura del grande maestro (insieme a Dino Risi) della nostra commedia (e non solo) ma a prescindere da ciò, è soprattutto un’opera in cui si rispecchiano due generazioni, in un confronto-scontro ravvicinato padre-figlia. In breve, nell’idea e nella concezione del cinema di Luigi c’è il gesto, il punto di vista “oggettivista” della nostra tradizione migliore post-bellica: dal Neorealismo, passando per il Neorealismo rosa sino alla commedia all’italiana, con intrisi o in controluce i valori della Resistenza e della nuova Italia repubblicana; in quella di Francesca c’è, invece, tutta l’irrequietezza delle post Nouvelle Vague, del soggettivismo autoreferenziale, degli anni Settanta e dei suoi drammi: dalla poesia e le illusione della rivoluzione sessantottina all’autodistruzione, dalla droga alla lotta armata, all’assassinio di Aldo Moro (riproposto nel film), insomma al caos interiore ed esteriore.
Tutto ciò viene raccontato in sottofondo, in una sorta di grande fuori campo che accompagna le varie fasi di un bel rapporto sentimentale tra un padre amorevole ma severo e una figlia che, dai sogni belli e dorati dell’infanzia, si perde nella confusione degli eventi, nei momenti difficili del crescere, cercando in modo faticoso di trovare la propria giusta distanza con la vita, riuscendo a sfuggire alle scorciatoie distruttiva della droga o di un impegno politico drogato. Il tutto scritto, fotografato e narrato con leggerezza e passione, in modo avvincente e senza sbavature.
Il nostro consiglio è di andare assolutamente a vedere questo bel film e mi domando anche perché sia rimasto fuori dalla porta principale, (solo Fuori Concorso) alla Mostra di Venezia 2024 dove è stato presentato in anteprima. Io – giudizio assolutamente personale ma anche condiviso da qualche altro collega – lo ho assolutamente preferito agli altri film italiani scelti a gareggiare per i Leoni veneziani del Concorso.
In sala dal 26 settembre 2024
Il giorno 26 alle ore 22 al Cinema Troisi di Roma, dopo la proiezione del film, verrà assegnato il Premio Francesco Pasinetti dei Giornalisti Cinematografici a Romana Maggiora Vergano, per Il tempo che ci vuole, migliore attrice 2024 tra le protagoniste dei film presentati alla Mostra Internazionale di Venezia 81.
Il tempo che ci vuole – Regia e sceneggiatura: Francesca Comencini; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti; musica: Fabio Massimo Capogrosso; scenografia: Paola Comencini; interpreti: Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano, Anna Mangiocavallo, Luca Donini, Daniele Monterosi, Lallo Circosta, Luca Massaro, Giuseppe Lo Piccolo, Luigi Bindi, Laura Borrelli, Paolo Mannozzi, Gianfranco Gallo, Massimiliano Di Vincenzo, Massimo Cimaglia, Aphrodite De Lorraine, Marco Belocchi, Leonardo Giuliani; produzione: Simone Gattoni, Marco Bellocchio, Beppe Caschetto, Bruno Benetti, Sylvie Pialat per Kavac Film con Rai Cinema, Les Films du Worso, IBC Movie, One Art: origine: Italia /Francia, 2024; durata:110 minuti; distribuzione: 01 Distribution.