Mi preoccupo e lo farò per tutta la vita. Questo dice un padre al figlio. Questo è il principio su cui si fonda la genitorialità: al momento della nascita si sposta il proprio centro, non si è più la persona più importante della propria vita e lo diventa colui che è appena nato, quella carne della propria carne di cui importa più di sé stessi, qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa il proprio erede faccia.
Pierre (interpretato da Vincent Lindon) è un operaio specializzato di mezz’età che lavora nelle ferrovie. Ha due figli: Fus (Benjamin Voisin) – ventidue anni, che gioca a calcio, ha interrotto gli studi da metalmeccanico, appare senza interessi a parte lo stadio – e Louis (Stefan Crepon) – vent’anni, studente modello che sta per finire il liceo e vuole tentare di entrare alla Sorbone a Parigi. La madre è morta di malattia da tempo, i tre sono molto uniti, cucinano e mangiano insieme, seguono lo sport in televisione, vanno a vedere la squadra del cuore.
Pierre ha preso parte alle battaglie politiche degli anni Settanta, porta avanti ed ha allevato i ragazzi con valori di tolleranza e condivisone, inclusione e uguaglianza.
Un giorno un collega, ancora impegnato con volantinaggio per il sindacato, gli dice di aver subito delle minacce da dei militanti ultrà di estrema destra: ha visto tra loro Fus. Il padre non ci può credere, nega, dice che sicuramente sarà stato qualcuno che gli assomigliava. Poi affronta di petto il ragazzo che non si vergogna di affermare che gli immigrati non sono come i francesi. Pierre non può accettare di avere un figlio xenofobo, razzista, filo fascista. I toni si scaldano, sono due maschi che si confrontano sul terreno del corpo, della forza fisica. Il padre si toglie di mezzo, sbollisce la rabbia per i fatti suoi. Il fratellino si sente in mezzo, prova a mediare tra i due ma poi, ad un certo punto, protegge il fratello. Mentre Pierre, di notte, sui binari tiene alta una torcia per fare luce nel buio sull’area ferroviaria, il primogenito balla in discoteca sotto luci stroboscopiche con delle teste rasate: giocano col fuoco, ognuno a suo modo.
Ogni sera Fus esce di casa con la felpa nera sulla testa e un’aria volutamente maledetta: va a vedere agli incontri di boxe a mani nude, si abbraccia con energumeni forzuti che lo stringono in segno di fratellanza, urla ai pugili con la foga furiosa di chi è abituato ad alzare la voce e a usare la violenza come forma di comunicazione. A casa cerca di non scontrarsi col padre che continua a preparare i pasti per tutti fingendo di poter ritrovare l’armonia familiare di un tempo.
Fus si fa tatuare dietro il collo una croce celtica, si guarda allo specchio con fierezza e, alla domanda di Louis se ne conosca il significato, risponde minimizzando che è solo un segno tribale.
In un crescendo corrosivo che non può che condurre alla tragedia Jouer avec le feu (tratto dal romanzo Quel che serve di notte di Laurent Petitmangin), attraverso la regia delle due sorelle Delphine e Muriel Coulin – meticolosa, tagliente, visivamente precisa nei dettagli, nelle scene, nella luce – domanda al pubblico un’attenzione partecipata, facendo provare una colluttazione quasi fisica con i fatti narrati: non si può rimanere impassibili davanti ai quesiti che si pone questa figura paterna importante, preoccupato per sempre per il figlio, per il quale vorrebbe ogni bene sebbene le sue scelte non siano condivisibili. Un film tutto maschile, girato da mani femminili che hanno saputo scavare perfettamente nelle psicologie dei personaggi, con dovizia e cuore, supportate da un trio di attori perfetti.
Jouer avec le feu; Regia: Delphine Coulin, Muriel Coulin; sceneggiatura: Delphine Coulin, Muriel Coulin; fotografia: Frédéric Noirhomme; montaggio: Béatrice Herminie, Pierre Deschamps; musica: Pawel Mykietyn; interpreti: Vincent Lindon, Benjamin Voisin, Stefan Crepon; produzione: Felicita, Curiosa Films, France 3 Cinéma, Umedia; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Francia, 2024; durata: 110 minuti.
Proposta di voto: 3 e mezzo su 5 stelle.