Il Paese delle persone integre di Christian Carmosino Mereu

  • Voto

È il 27 ottobre 2014. A Ouagadougou, in Burkina Faso, è in corso la rivoluzione. Fra le vie gremite e accaldate della Capitale si nasconde una cinepresa – per la precisione, quella di Christian Carmosino Mereu, documentarista per scelta e vocazione ritrovatosi a far parte di un racconto che, in fondo, appartiene a tutti. L’esordio avviene, per così dire, in sordina: il regista non proferisce parola, ma lascia che le vicende fluiscano sull’informe palcoscenico della storia.

Poi udiamo alcuni spari. È la prima volta anche per lui, almeno in queste circostanze. La folla sobbalza e si disperde come un cumulo di foglie sospinte da una folata improvvisa, a premere il grilletto è l’esercito. Allora, solo allora, intravediamo il volto celatosi dietro l’obiettivo, ed è quello di un uomo spaventato. Così inizia la narrazione, in una sorta di limbo sospeso fra la sfera privata e quella pubblica, fra il diario e la cronaca. La voce di Carmosino è di un nitore quasi insostenibile, la lucidità del suo sguardo ci spiazza, e non sappiamo bene quale sentimento provare di fronte alle automobili in fiamme o all’istantanea di un ragazzo inginocchiatosi di fronte ad una compagine di militari.

Ma “torniamo un attimo indietro” e riavvolgiamo di poco il nastro degli ultimi eventi. È, dunque, il 27 ottobre 2014 a Ouagadougou, in Burkina Faso, e Carmosino sta girando un documentario con la cooperazione italiana. Una miccia prende fuoco, le autorità consigliano agli stranieri di lasciare il Paese, qualche corteo ci prepara al necessario tracollo di un equilibrio già precario, e ciò che dapprincipio sembrava un semplice mormorio si trasforma ben presto in un boato assordante. La troupe decide di rimanere e fotografare quell’esplosione apparentemente improvvisa.

In effetti, è dagli anni ’60 che la Nazione combatte per la propria indipendenza – indipendenza vissuta soltanto sporadicamente fra una dittatura e l’altra. L’autore, tuttavia, non intende darci lezioni di geopolitica, ma ritrarre la cosiddetta realtà dei fatti (impresa alquanto difficile) nell’immediato presente in cui essa si dipana (impresa ancora più difficile). Ci sentiamo meno soli nell’apprendere che le conoscenze del regista sul Burkina Faso si limitano a letture sporadiche o alla visione di qualche lungometraggio. È infatti un ragazzo Burkinabé, interprete e guida del nostro lungo viaggio, a far luce sulla situazione: il Presidente Blaise Compaoré ha proposto una riforma della Costituzione che consentirebbe al regime di protrarsi per i successivi 15 anni. Ritorniamo, come sempre, al punto di partenza: il popolo scende in piazza per reclamare la democrazia. Quest’ultima si manifesta, qui e nella memoria collettiva degli insorti, come un lontano ricordo: negli anni ’80, un breve interludio di pace fu infatti siglato dal rivoluzionario e primo ministro Thomas Sankara, promotore di numerose riforme che avrebbero dovuto cambiare radicalmente il volto del Paese – un Paese che Sankara, con le parole Burkina Faso, consacrò “alle persone integre”. Nel 1987, il leader venne condannato a morte da Compaoré, allora suo vice: così si apre una tirannia lunga oltre 27 anni, e così giungiamo anche all’incipit della nostra pellicola.

Se i colori della rivoluzione sono sempre il bianco e il nero, come ci mostra Carmosino, quelli della ritrovata libertà sono molteplici – e, in un certo senso, più ombratili. Il cammino verso l’indipendenza è faticoso e saturo di sfumature diverse. Il rischio di incorrere in tinte ancora più fosche delle precedenti rimane estremamente alto: nel settembre 2015, difatti, un nuovo golpe rovescia il governo di transizione e instaura un altro regime militare. La cinepresa ritorna di corsa, a frontiere quasi chiuse, per immortalare quella che sembra l’ultima risacca del sofferto ottobre 2014. Ma il Colpo di Stato fallisce, e il popolo riprende il timone di sé stesso.

Intanto, nei bar e nelle strade s’infervora il dibattito, richiamando alla memoria l’Italia (ma non solo l’Italia) anni ’70 con le sue grandi speranze poi disattese. Verrebbe quasi da pensare che il silenzio disilluso in cui l’Occidente si è ormai da decenni trincerato appaia più inquietante di qualsiasi scoppio d’ira. Forse sono i nuovi anni di piombo, ma è una considerazione che non riguarda il filmmaker italiano, né gli artisti e gli integri incrociati nel suo pellegrinaggio, pionieri di un idealismo schietto e impavido ormai assente nella vecchia Europa.

Insieme all’autore, dunque, accompagniamo il musicista e attivista per i diritti civili Sam’sk Le Jah nella sua tournée, ma anche nella sua rocambolesca fuga dai golpisti del 2015. Conosciamo Constant, che più di ogni altro pare possedere un’irresistibile inclinazione alle scienze politiche. Incontriamo Ghost, un ex fonico costretto a calarsi nelle mostruose miniere che si schiudono fuori città. Ceniamo e chiacchieriamo con Assana, giovane madre rinchiusasi nell’ironico fatalismo di chi “vive e basta”. Ogni volta l’immagine si blocca, la telecamera ha un sussulto, quasi cercasse d’imprimere nella memoria ciò che della rivoluzione rimane: l’umana esistenza, l’individuo e il suo giardino, il valore e la precarietà del pensiero integro, il “cordone ombelicale” che ci lega tutti, nessuno escluso.


Cast & Credits

Il Paese delle persone integre  – Regia: Christian Carmosino Mereu; sceneggiatura: Christian Carmosino Mereu; fotografia: Christian Carmosino Mereu; montaggio: Marco Minciarelli; con: Sam’sk Le Jah, Yiyé Constant Bazié, Assanata Ouedraogo, Dieudonné Tagnan alias Ghost; produzione: Centro Produzione Audiovisivi – Dipartimento Filosofia Comunicazione e Spettacolo – Università Roma Tre, DocFest Productions, Indyca; origine: Italia, Burkina Faso 2022; durata: 106’.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *