-
Voto
Tra i luoghi di questa ondata di revival horror, il convento sembra essere diventato una sorta di emblematica scena del crimine e del male, soprattutto per la sua capacità evocativa di catalizzare i tanti immaginari di possessioni, presenze demoniache, lotte tra il bene e il male che hanno attraversato e trasformato i connotati del genere nel corso del tempo.
Lo sa bene questo il bostoniano Michael Mohan che già nel precedente The Voyeurs (disponibile su Prime) rielaborava un’altra suggestione del grande cinema di suspense a sua volta transitata per le ossessioni autoriali hitchcockiane e depalmiane (La finestra sul cortile e Omicidio a luci rosse), e che in Immaculate-la prescelta allarga, sovrappone e moltiplica il gusto dei riferimenti cinefili, cercando riscattare almeno su un piano visivo i risvolti più improbabili dell’astrusa trama: Suor Cecilia, novizia americana giunta in un isolato convento situato nella campagna dell’hinterland romano, si porta dietro uno status di miracolata sopravvissuta ad un annegamento sotto il ghiaccio (evento revocato da un jump scare piuttosto gratuito) e l’espressione spaesata di un’estranea in terra straniera (lo sguardo sull’orlo di una crisi di nervi è quello della blasonata biondina Sydney Sweeney sempre più simile ad Amanda Seyfried).
Ben presto la ragazza scoprirà la manovra coercitiva con cui è stata portata fin laggiù dal mellifluo e manipolatore sacerdote Sal Tedeschi, coadiuvato dalla complicità, dall’omertà e dall’ assoggettamento delle altre novizie, delle suore, del cardinale e della madre superiora. Un segreto preannunciato nell’ esplicito incipit in cui la precedente novizia, cercando di scappare, viene catturata da un minaccioso concilio di monache senza volto, lasciando intuire la fine sua e probabilmente di tante altre prima di lei. Per quanto sia veramente implausibile il MacGuffin intorno al quale ruota la storia, sarebbe scorretto entrare nel dettaglio dei perché e i percome anche Cecilia a un certo punto cercherà di fuggire e verrà brutalmente ostacolata, innescando una reazione difensiva ugualmente violenta, con innesti e accelerazioni, in particolare verso la fine, da slasher movie (con il crocefisso e il rosario al posto della saga elettrica o dell’accetta); ci sono però alcuni topos talmente dichiarati e rappresentati fin dalla prima parte, che è impossibile non considerarne la presenza in una lettura del film. La gravidanza miracolosa o maledetta di Suor Cecilia apre un conflitto che viene dritto da Rosemary’s baby, capolavoro allucinatorio sulla percezione alterata pre e post partum di Roman Polansky, mentre il convento con i suoi corridoi e loculi sotterranei vorrebbe proporre la progressione narrativa dell’argentiano Suspiria, con un’insistenza sull’elemento del sangue in analogia con il remake di Guadagnino; il confronto purezza/peccato e lo sguardo sgranato in sottoveste bianca potrebbero essere altresì una citazione della Carrie depalmiana, con il dovuto rispetto per l’immensa Sissy Spaceak di fronte alla quale la prova della pur volenterosa Sweeney sbiadisce e non solo per il biancore delle pelle. Immaculate si pone dunque in questa zona ibrida tra potenzialità/ambizione e risultati sul piano espressivo, estetico e di racconto, come del resto molti degli horror che vengono prodotti, consumati e digeriti da un’industria che procede per formule, tendenze, refrain, puntando più all’effetto dello spavento immediato che ad aprire uno squarcio di inquietudine e di paura in grado di sedimentare e far nascere nuove forme di rappresentazione e di fruizione.

C’è da dire poi che in questo caso non si riesce a centrare completamente lo straniamento che dovrebbe suscitare l’ ambientazione italiana vista dall’ottica di una ragazza americana, in quanto prevale quel cliché di morboso, a tratti grottesco e un po’ greve, attraverso il quale vengono messi convenzionalmente in scena “i misteri della Chiesa” ( con tanto di fantasmatiche suore che si aggirano di notte con espressioni perturbanti ad annunciare a Cecilia il suo destino di prescelta…).
Se la prima parte risulta abbastanza meccanica e prevedibile, è curiosamente verso la fine che la regia di Mohan si libera definitivamente dello spettro comunque non risolto della plausibilità dello script e acquista la forza grezza del gesto e della pulsione. Cecilia, non più suora o vittima di un qualsivoglia assurdo complotto cristologico/scientifico, diventa corpo stretto tra le tensioni e le distensione di una contrazione, con il dolore del parto che si accumula su quello di una necessaria lotta per la sopravvivenza. Vengono meno tutte le strategie e i filtri logici per capire e interpretare, c’è una perturbante regressione allo stato animale, con un finale tra i chiaroscuri della catacombe e alla luce di una boscosa e selvaggia natura, una lunga sequenza che permette di fare associazioni meno pretenziose e più pertinenti delle precedenti: la giovane donna che emerge insanguinata dalle grotte dopo essere scampata alla brame dei “mostri” ricorda il visceralmente spaventoso The Descent di Neil Marshall ( quella madre faceva però i conti con una figlia già perduta, e non ancora da partorire, durante una spericolata escursione dentro gli anti remoti dei Monti Appalchi); e la creatura probabilmente bestiale che Cecilia genera in un prolungato Close up di grida primitive resta un’immagine fuori campo come il bambino piangente nella culla frutto dell’accoppiamento tra Rosemary e il demonio, ma anche come i figli della stirpe troll ripudiati nella loro identità “mostruosa” in Border-creature di confine, dove il regista Ali Abbasi non mantiene però la promessa fino all’ultimo e cede nel mostrare uno di quei “altri neonati” (con un discutibile finale shock). Mohan preferisce la contro mossa di liberarsi da un male non vedibile e non rappresentabile in quanto vittima incarnata di una degenerazione prettamente umana, e forse è per questo che sottolinea con inquadrature in primo e primissimo piano sui dettagli degli sgozzamenti e degli spappolamenti ai danni dei cattivi della storia (deduzione a ritroso, a dire il vero…), i veri responsabili di ogni abominio.

Lo stesso titolo, Immacualate, fa riferimento alla purezza della protagonista, da lavare evidentemente con il sangue dell’infante maledetto, e non al baby che cresce dentro di lei. E gli antecedenti e falliti tentativi di concepimento vengono mostrati a Cecilia come imbalsamati e indistinti feti sotto vetro (una scena tirata abbastanza via) e non come agonizzanti e informi esseri che chiedono di essere distrutti (chi non ricorda la terrificante sequenza dei cloni di Ripley nell’Alien-La clonazione di Jean-Pierre Jeunet?).
Per questo a restare per il tempo più prolungato di una manciata di secondi da jump scare è il volto rosso sangue e urlante della Sweeney, per una volta trasfigurante la dimensione di bambolina smarrita. Solo che non sappiamo se il volume e l’intensità siano sufficienti per salvare l’umanità intera, o anche semplicemente questo film dalla sua destinazione di spavento estivo.
In sala dall’ 11 luglio 2024
Immaculate- la prescelta (Immaculate) – regia: Michael Mohan; sceneggiatura: Andrew Lobel; fotografia: Elisha Christian; montaggio: Christian Masini; musica: Will Bates; interpreti: Sydney Sweeney, Alvaro Morte, Dora Romano, Benedetta Porcaioli, Giorgio Colangeli, Simona Tabasco; produzione: Black Bear Pictures, Fifty-Fifty Films, Middle Child Pictures; origine: USA, 2024; durata: 89’; distribuzione: Adler Entertainment, Leone Film Group.
