Per Michele Rech, in arte Zerocalcare, è evidente che la coerenza è la prima delle prerogative a cui attenersi come la mancanza della stessa la prima delle paure: «ciò che temevo di più è che le persone pensassero che io avessi dato in bocca a Netflix i miei lavori e che non ci fosse nulla di mio». Più o meno queste le parole dell’autore romano – riportate a memoria e in parte edulcorate dal romanaccio che, dicasi ancora coerenza, non può certo mancare – e l’intenzione si ritrova tanto nella serie tv Strappare lungo i bordi – storpiato in Strappare lungo i brodi dal direttore “creativo” Antonio Monda a inaugurare le prime risate genuine di tante altre della serata-incontro alla Festa di Roma – quanto nella persona di Zerocalcare che da Rebibbia non vuole allontanarsi: felpa, jeans e una buona dose senso di inadeguatezza al luogo sfilano corrucciate sotto i flash dei fotografi e tra gli applausi della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica.
Due le puntate presentate della serie Strappare lungo i bordi (https://close-up.info/4320-2/), le prime di sei, ed entrambe essenzialmente coerenti al credo zerocalcariano: situazioni di vita quotidiane soggette a un overthinking divorante servite nel contesto di una Rebibbia la cui atmosfera di periferia romana è mitigata dalle forme fumettistiche. La prima puntata è un mix di situazioni che ricordano immancabilmente quelle delle prime pubblicazioni: uno Zero alle prese con la propria insufficienza nei confronti di una quotidianità nella quale ogni azione, anche la più semplice, assume i contorni di una legge universale imposta. Il rapportarsi a una ragazza, Alice, diventa una lezione di psicologia applicata con professore l’Armadillo e il cambiarsi d’abito nel bagno di un bar l’occasione di un confronto tra bagni maschili e bagni femminili, due mondi presentati come opposti (o forse no?) con evidenti rimandi a un’atmosfera punk primi anni 2000.
I quindici minuti a puntata non pesano affatto, anzi, ilarità e applausi riescono per un pelo a stare dietro a un montaggio davvero serrato che non lascia un istante sospeso e apre alla risposta di una delle successive domande del pubblico: se quando si legge Zerocalcare fumetto è il lettore a decidere la tempistica, la serie tv quale tempistica segue? O meglio, di chi? Ovviamente quella dell’autore, però frenata: «io il ritmo lo volevo più veloce, più incalzante, la produzione però mi ha detto di rallentarlo», parole a cui fanno eco altre successive: «la serie-tv è pensata per essere vista una prima volta a velocità normale e poi fermarsi sui singoli disegni la seconda o la terza perché ogni frame nasconde sotto testi e rimandi e ci vuole tempo per coglierli». Fluidità per natura, densità a scelta, ecco i due elementi che vanno a intrecciarsi nella narrazione zerocalcariana una volta fatta seriale. Forse nemmeno una novità, tuttavia eviterei di rifiutare le gradite conferme.
Se la prima puntata è un lampo, la seconda invece prende respiro senza farsi lenta, dilata giusto i tempi per porre le basi di quella che sarà il filo narrativo della serie, ma anche qui l’excursus è dietro l’angolo: ritorna lo Zero bambino, il senso di inferiorità nei confronti del mondo nato d’attese scolastiche deluse prende un respiro universale con il rovescio di medaglia finale (geniale?): è così deludente scoprirsi filo d’erba in un prato? Forse no, forse regala occasione di leggerezza, tanto sottovalutata tanto preziosa nel denso rimestare zerocalcariano. E fra un rimando immancabile a Genova 2001 – nel confronto ribadirà come «benché abbia preso solo un paio di pizze sia stato l’evento che mi ha cambiato, è imprescindibile» – e alla difficoltà di utilizzare un cric con critica al patriarcato annessa – «un uomo non può chiedere aiuto, mai» – , l’episodio finisce mancando di rivelare quale sia la recherche della serie tv, ma ciò, in effetti, non pone poi un problema: altri quindici minuti sono passati e non se ne ha avuta coscienza, troppo si è stati impegnati a ridere e riflettere, mescolando l’uno con l’altro. Ciò che la serie avrà poi da dire, ad ampio respiro, sarà compito delle altre quattro puntate. Insomma, c’è tutto il tempo del mondo, anche per quello.
Le domande dell’incontro successivo alla visione – guidate da Andrea Delogu che alterna una propria domanda a una del pubblico – sono la falsariga di una spiegazione anatomica dello scheletro della serie tv: benché conosca l’italiano una signora canadese ammette di aver capito il cinquanta per cento degli episodi e non si può che apprezzarne la sincerità rivelatrice: nelle serie tv il romanaccio la fa da padrone e, curiosità, il linguaggio che scivola dalle labbra di un personaggio all’altro viene però sempre da una bocca sola, quella dell’autore, Zerocalcare in veste di doppiatore. Certo, escluso quella dell’Armadillo, di cui ci si è dovuti accontentare di Valerio Mastandrea.
Altra domanda altro giro. Qualcuno chiede se la casa produttrice Netflix abbia posto veti e la risposta va ancora in senso opposto: a parte i vari diritti di copyright a cui si è dovuto prestare attenzione – «parli tipo di mia madre Lady Cocca? Sì, nei fumetti lo posso fare perché quelli non se li incula nessuno, qua è differente» -, Netflix è stata la prima a richiedere precisione e cura dei particolari, alimentando una tendenza già zerocalcariana al dettaglio. Anzi, la piattaforma ha giocato pure di fair play e si è trovata ad accettare ironia su se medesima: nella prima puntata uno Zerocalcare armato di telecomando ammette davanti al catalogo netflixiano: «8000 titoli de merda», per poi correggere: «magare non proprio tutto di merda ma…», e il tutto non viene affatto edulcorato. Quella che pareva una marchetta bella e buona, si trasforma in presa in giro e la presa in giro in marchetta tanto involontaria quanto ironica, coniugando messa in mostra e intelligenza, binomio che a braccetto può andare lontano, spensieratamente.
Tra un richiamo alla poetica autoriale e alle sue finalità nonché responsabilità collettive, – «non voglio migliorare il mondo, sinceramente mi accontento di non peggiorarlo» – e interrogativi relativi al futuro – «per ora vediamo come va la serie» -, arriva l’ultima ‘domanda’, quella di un bambino che chiede senza mezzi termini di avere una dedica sul libro per il padre. Ci regala così un’immagine da libro Cuore – si colga l’ironia -, l’ultima, quella di uno Zerocalcare piegato sulla pagina bianca, penna in mano e l’Armadillo – «è quello che mi esce più veloce» – a crearsi tra uno svolazzo e l’altro. Sguardo concentrato e mezzo sorriso tra le labbra. Si era forse parlato di coerenza?
Ecco, appunto.
Dal 17 novembre su Netflix