Le otto montagne di Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch

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Un tempo lontano, negli anni Venti del secolo scorso, era molto di moda, soprattutto in ambito tedesco (ma non solo), un genere che si chiamava del Bergfilm, il film di montagna. Erano dei semplici, elementari melodrammi ambientati in belle distese nevose alpine in cui risaltava la bellezza dei luoghi e il piacere avventuroso nella sfida per conquistare le vette, insomma, in sintesi estrema, la rappresentazione dell’eterna lotta tra l’uomo e la natura – ma chi vedrà il film dei due registi belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch apprenderà che la parola natura non la si deve usare o meglio è usata da noi “topi di città” e non da coloro che vivono in quei luoghi.

Ora non si può onestamente dire di Le otto montagne  – allo scorso Festival di Cannes si è aggiudicato il Premio della Giuria (ex aequo con Eo di Jerzy Skolimowski) e ora esce anche nelle sale italiana – che possa essere definito come un redivivo Bergfilm. Per tanti motivi, primo tra tutti proprio perché manca dell’elemento centrale e primario della sfida umana contro gli elementi naturali – anzi tutto il contrario: a nostra memoria non ricordiamo un film d’ambientazione simile in cui il tempo atmosferico sia tanto soleggiato e mite, come se anche d’estate in montagna (a nostra esperienza) non fosse, invece, sempre o spesso, variabile o peggio. Sarà tutto ciò, forse, causato dalle drammatiche conseguenze delle mutazioni climatiche intervenute dal secolo scorso, o forse, molto più probabilmente, dovuto ad una qualche tendenza alla promozione turistica in un film teso a mostrare ed esaltare le bellezze dei luoghi (che comunque male non fa all’occhio dello spettatore).

In ogni caso, Le otto montagne – tratto dall’omonimo libro dello scrittore milanese Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega nel 2017 proprio per questo fortunato romanzo – qualcosa di antico ce l’ha, a partire dall’essere stato girato in 4/3 e non in un formato più panoramico e spettacolare, ma anche per la sua storia. Che risulta essere un mix di amicizia virile e di Coming of Age da parte dei due protagonisti, come da migliore tradizione del cinema classico americano e non.

Accompagnati da una voce narrante dell’Io onnisciente (che francamente ci saremmo risparmiati ma che aggiunge un tono old fashion al tutto), film e libro vedono al centro della narrazione un’amicizia ultradecennale tra Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (un eccellente Alessandro Borghi). L’uno è un ragazzo di città (Torino), che si reca in montagna solo per trascorrere le vacanze estive accudito da papà amorevole dedito al lavoro di fabbrica tanto da morirci (bella la caratterizzazione di Filippo Timi), mentre l’altro in mezzo ai monti ci vive tutto l’anno (e ciò gli piace molto) ed è figlio di un padre ruvido (e assente) di mestiere pastore/manovale. I due protagonisti si erano conosciuti nel 1984 da bambini, quando passavano le giornate in mezzo ai monti per fare lunghe passeggiate e avevano stretto un’amicizia che sembrava eterna. Poi passano gli anni, le esperienze, i luoghi (Pietro, diventato scrittore di un certo successo, va persino a finire e a trovare l’amore in Nepal) e dopo molto tempo i due, ormai grandi, si ritrovano a costruire una casa in alta quota come una sorta di risarcimento familiare. La morale: ognuno finirà per essere sino in fondo se stesso, persino sino a delle conseguenze estreme… E qui chiudiamo con la trama.

Chissà come mai il regista belga Felix van Groeningen dalla carriera un po’ imperscrutabile – il suo film più noto è stato Alabama Monroe – Una storia d’amore (2012), l’ultimo è invece l’americano Beautiful Boy (2018), entrambi dalle storie molto drammatiche – abbia deciso di ridurre per lo schermo un romanzo nostrano di successo, insieme alla sua compagna Charlotte Vandermeersch (ex attrice e sceneggiatrice qui alla sua prima esperienza di coregia).

Il risultato, comunque, è un discreto film, austero e abbastanza anomalo, fuori dagli schemi usuali del nostro cinema – il che va benissimo; certo è anche parecchio lungo, a volte strascicato ma nel complesso non noioso e regge bene un ritmo lento ed avvolgente nel seguire le varie vicende dei due protagonisti nel tempo che passa. Gli attori e le attrici sono tutti molto, molto bravi nelle loro caratterizzazioni, le locations risultano suggestive e ottimamente fotografate. Forse manca ancora – a nostro fallibile giudizio – di quel pizzico in più che ci avrebbe strappato un plauso incondizionato. Ma al Festival di Cannes ha avuto un riconoscimento importante e magari troverà anche un pubblico (probabilmente amante della montagna o incuriosito dal numero otto del titolo derivato da una leggenda tibetana) che lo andrà a vedere con piacere in questo periodo di feste.

In sala dal 22 dicembre


Le otto montagne Regia: Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch; sceneggiatura: Charlotte Vandermeersch, Felix van Groeningen dall’omonimo libro di Paolo Cognetti; fotografia: Ruben Impens; montaggio: Nico Leunen; musica: Daniel Norgren; scenografia: Massimiliano Nocente; costumi: Francesca Brunori; interpreti: Luca Marinelli (Pietro Guasti), Alessandro Borghi (Bruno Guglielmina), Filippo Timi (il padre Giovanni Guasti), Elena Lietti (la madre Francesca Guasti), Elisabetta Mazzullo (Lara) Lupo Barbiero (Pietro Guasti bambino), Cristiano Sassella (Bruno Guglielmina bambino) Andrea Palma (Pietro Guasti ragazzo), Surakshya Panta (Asmi); produzione: Mario Gianani, Lorenzo Gangarossa per Wildside, Pyramide productions, Rufus / Menuetto in coproduzione con Vision Distribution; origine: Italia/Francia/ Belgio, 2022; durata: 147’; distribuzione: Vision Distribution.

 

 

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