Libri: L’Unità, una storia tante storie di Roberto Roscani – una recensione di Paolo Soldini

“Come ci consideravamo? Dei giornalisti sicuramente, dei comunisti altrettanto, le due cose si tenevano”. Se si dovesse cercare una frase che riassuma il senso dell’impresa cui Roberto Roscani si è dedicato scrivendo L’Unità, una storia tante storie, è lui stesso a servircela, all’inizio di uno dei primi capitoli del libro.

Giornalisti e comunisti. Il primo dei due termini ha un perimetro di significati chiaro, il secondo molto meno. Qualcuno può pensare che a voler collocare come si deve il concetto di “comunisti” evocato per la vicenda dei tanti che hanno fatto la storia di un giornale davvero unico al mondo nella sua doppia natura di organo di partito e giornale d’informazione (popolare, nel senso più proprio e più pulito del termine), l’autore avrebbe potuto aggiungervi la parola “italiani” oppure ricorrere proprio a un’altra espressione, più generica e, diciamo così, meno “impegnativa”: progressisti? di sinistra?

Sarebbe stato sbagliato e chiunque legga il libro capisce facilmente perché. La ricostruzione che Roscani fa della storia del giornale corre continuamente sul filo politico della storia del partito comunista italiano, della sua evoluzione, dei suoi scatti di coscienza, delle sue crisi e delle formidabili contraddizioni che si è portato dietro fino alla dissoluzione nella “normalità” di un paesaggio politico italiano scevro dalla “anormalità” della presenza, e del peso, del partito comunista più forte nella parte occidentale del mondo, come si diceva un tempo, con orgoglio o con fastidio.

Si veda quanto questa lettura della storia del PCI guardata attraverso il filtro (sempre trasparente, anche quando dalla caduta del Muro di Berlino si è andato facendo ingannevole e confuso) delle tante storie della redazione dell’Unità sia resa in modo appassionato per l’autore e appassionante per i lettori nei passaggi più difficili e controversi. Fino agli ultimi anni di vita del giornale, prima della definitiva chiusura e della impropria rinascita con lo stesso nome ma diversissima natura, quando Roscani spiega perché e come il rapporto con il partito si sia fatto problematico, contrastato, oppositivo, ma sempre determinante.

I passaggi difficili. Prendiamo il 1956 dei “fatti d’Ungheria”, come la rivolta di popolo e la repressione sovietica con un penoso esorcismo linguistico venivano pudicamente chiamate sulle pagine del giornale: la valanga delle crisi di coscienza che staccò dal partito di Togliatti una parte decisiva della cultura italiana; le ambasce dei redattori e degli inviati che come Alberto Jacoviello dovevano scrivere con l’animo lacerato; la scelta, chissà quanto sofferta, del direttore di allora, Pietro Ingrao nell’esporre nell’editoriale le ragioni per cui l’essere “dalla parte giusta” nel mondo diviso imponeva la dolorosa disciplina dello schieramento, negando la giustizia vera che stava dalla parte del popolo ungherese.

Rpberto Roscani ne scrive con una partecipazione evidente, all’ombra di una domanda implicita ma fondamentale: non poteva andare diversamente? Ovvero: quanto sarebbe cambiata la storia d’Italia se il PCI avesse avuto allora la lucidità e il coraggio che, almeno in parte, avrebbe avuto dodici anni più tardi di fronte alla repressione della Primavera di Praga? E non a caso cita il film di Nanni Moretti , Il Sol dell’avvenire, in cui si immagina un’altra conclusione della vicenda, con il PCI e l’Unità che scelgono di stare, allora, “dalla parte giusta”.

Pagine altrettanto intense sono dedicate ad altri momenti in cui passaggi decisivi della storia del PCI vengono letti dal fronte del “suo” giornale: lo “strappo” di Berlinguer dall’Unione Sovietica, la stagione delle discussioni (e dei dubbi) sul compromesso storico, lo smarrimento per il fallimento della strategia di avvicinamento alla DC e al governo (molto interessanti le pagine sul brusco passaggio dall’entusiasmo per l’avanzata elettorale del ‘76 alla dura contestazione studentesca del ’77), il grande, e molto confuso, confronto seguito alla svolta di Occhetto…Tutte pagine in cui le due identità, giornalisti e comunisti, davvero “si tenevano”.

Ma c’è un’altra lettura che si può fare di quella risposta alla domanda “come ci consideravamo”. È più intuitiva, più psicologica, difficile da comunicare a chi deve considerarla dall’esterno. Roscani ci torna spesso nel suo racconto quando insiste sul sentimento di comunità che accomunava non solo la redazione, ma tutto il complesso del giornale, compresi i tipografi, i tecnici, i collaboratori. L’Unità, ci dice, è stato un “collettivo”, una vera arena aperta in cui le opinioni circolavano orizzontalmente e molto liberamente. Può sembrare retorica da immaginifici soviet e magari in qualche occasione lo è stata, come ad esempio quando un gruppo di redattori della cronaca di Roma decisero che non avrebbero più firmato gli articoli perché il giornale è “un fatto collettivo”, ma era un sentimento serio. All’Unità si discuteva molto, con una libertà di parola che bucava le barriere delle gerarchie. Non solo nelle assemblee di redazione, ma anche nella quotidianità del lavoro e dello stare insieme. Le pagine iniziali del libro dànno un’idea di questa ricchezza di dialogo, che trovava referenti e promotori nelle personalità di grandi “giornalisti comunisti” di profonda cultura e spirito libero come Arminio e Aggeo Savioli, Fausto Ibba, Ugo Baduel, ma anche alcuni fra i tanti direttori calati dalle Botteghe Oscure. Chi ha avuto l’occasione di partecipare alle riunioni di redazione, e magari di confrontarle con analoghe esperienze in altri giornali, ha il ricordo di discussioni serie, impegnate, in cui contava la voce di tutti. Esercizi di democrazia pratica che fecero bene al partito di cui l’Unità fu a lungo, anche formalmente, l’organo, e forse anche al mondo dell’informazione in Italia.


 

L’Unità, una storia tante storie di Roberto Roscani, Fandango Editore, Roma 2024, 336 pagine, 20 €. EAN: 9788860449726

 

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