Limbo di Ivan Sen e 20.000 especies de abejas di Estibaliz Urresola Solaguren (Premio all’interpretazione)

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Ormai quasi in dirittura d’arrivo, è abbastanza chiaro che uno dei fili rossi del Concorso  della Berlinale 2023 è quello riguardante il tema della famiglia e delle sue possibili evoluzioni oggi. Paradigmatico sotto questo aspetto, è l’opera prima della regista basca Estibaliz Urresola Solaguren: nel suo 20.000 especies de abejas (20.000 specie di api) – valutazione *** stelle – ci racconta della crisi di identità di un bambino di otto anni che vorrebbe essere chiamato con un nome femminile e si sente una bambina. Durante le vacanze nei Paesi Baschi d’origine, tale problematica si acuisce diventando drammatica. Essa, infatti, si lega e si incrocia strettamente non solo con il rispetto delle convenzioni tradizionali ma anche con la gestione di tale ricerca identitaria da parte della madre Ane (una brava Patricia López Arnaiz) – essa stessa alle prese con la non facile risoluzione di un doppio conflitto intimo e personale, quello con un matrimonio un po’ in bilico e soprattutto con il peso oppressivo della figura del padre scomparso, con cui non è riuscita a fare i conti.

L’opera di Urresola Solaguren è un dramma al femminile sull’identità di genere abbastanza ben costruito, sorretto da una solida, tradizionale messa in scena ma con parecchie lungaggini di troppo, molte metafore e sottotrame che ingarbugliano il narrato. Tematicamente, quindi, possiede tutte le credenziali, è perfetto per funzionare soprattutto con il pubblico berlinese ma forse avrebbe avuto bisogno di una sceneggiatura meno dispersiva e di un tocco di originalità stilistica in più – possiede, però, comunque qualche carta in mano per poter vincere un premio qui a Berlino

Molto più interessante, soprattutto dal punto visivo (è girato in un suggestivo bianco&nero), risulta invece Limbo che si addentra, anch’esso, negli incunaboli malati delle questioni familiari irrisolte ma questa volta molto lontano dall’Europa. Il regista aborigeno Ivan Sen ci porta, infatti, in una piccola città dell’entroterra australiano che non dovrebbe distare molto lontano da Coober Pedy, una città di cui personalmente non abbiamo mai sentito parlare (notizie da Wikipedia) la quale si trova nel nord dell’Australia Meridionale ed è stata talvolta definita la “capitale mondiale dell’opale”. La zona oltre alla quantità delle preziose pietre è rinomata per le sue abitazioni sotterranee, scavate nella roccia chiamate “piroghe “, costruite in questo modo a causa del caldo torrido diurno – in cui a confronto i celebri Sassi di Matera, facciamo un paragone azzardato, potrebbero risultare degli Hotel di prima categoria.

Già dalla prima inquadratura seguiamo un uomo in macchina, Travis Hurley (Simon Baker), ascoltare dei sermoni dalla radio mentre attraversa un paesaggio lunare che ci ha ricordato un po’ quello desertico e mefistofelico di Dove sognano le formiche verdi (1984). Lì si trattava della vicenda, narrata da Werner Herzog, di un territorio conteso tra una compagnia mineraria e i nativi aborigeni, quasi una sorta di lotta di classe, rifacendosi ad un caso veramente accaduto nel 1971 quello chiamato “Milirrpum contro Nabalco Pty Ltd”. In Limbo, invece, abbiamo a che fare con una investigazione poliziesca perché scopriamo quasi subito il busillis: il protagonista, preso quartiere in un motel scavato in una grotta rocciosa, che si chiama molto metaforicamente come il nome del film, è un detective a cui è stato dato l’incarico di riaprire il caso irrisolto (non si spiega però il perché) dell’omicidio di una ragazza aborigena di nome Charlotte Hayes, avvenuto vent’anni prima, le cui uniche prove sono alcune registrazioni su nastro. Il nostro Travis è tutt’altro che uno stinco di santo (lo vediamo drogarsi pesantemente in stanza di eroina) e da subito risulta un persona molto problematica, dal passato difficile – e nel corso del film ne avremo piena conferma – ma il suo mestiere lo conosce bene e, malgrado gli impedimenti, si mette ad investigare gli eventi accaduti agli inizi del 2000. Certamente non trova molto aiuto trai residenti tutt’altro che disponibili a fornire informazioni e a rinvangare quel tragico passato, né soprattutto nella famiglia della vittima, con un fratello Charlie (Rob Collins) e una sorella Emma  (Natasha Wanganeen) entrambi, in maniera diversa, altrettanto problematici. Non si parla, infatti, con un poliziotto, soprattutto poi se è bianco. Ma Hurley non molla facilmente la presa ed arriverà a delle conclusioni facilmente intuibili anche dallo spettatore.

Anche se a tratti un tantino noioso, Limbo ci è sembrato un film piuttosto interessante  non tanto per la denunzia sociale della povertà cronica e delle violenze degli aborigeni subite da parte dei bianchi né per le ricerche dell’investigazione che compie il nostro detective. La sua grande forza, impressagli da un autore come si dice “one-man-band”  – ha praticamente fatto tutto da solo il film salvo interpretarlo, aiutato dal protagonista Simon Baker sta nella straordinaria forza magnetica dei paesaggi e dei luoghi, perfettamente funzionale a sviscerare i rapporti familiari tra i vari personaggi della storia. Ivan Sen, tutt’altro che un regista cinefilo, avrebbe voluto girare – come ha dichiarato in conferenza stampa – quest’opera inconsueta in 35 millimetri e a colori. Per fortuna per questioni di budget ha dovuto cambiare idea e realizzare Limbo in digitale però in una bella fotografia in bianco&nero che contribuisce in modo decisivo alla resa estetica di questo “noir nel deserto” in cui non ci sono né buoni né cattivi. In bianco&nero dunque ma il colore dei sentimenti resta soltanto uniformemente grigio.


Limbo Regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, musica: Ivan Sen; interpreti: Simon Baker (Travis Hurley), Rob Collins (Charlie), Natasha Wanganeen (Emma), Nicholas Hope (Joseph), Mark Coe (Zac), Joshua Warrior (Oscar); produzione:  David Jowsey, Rachel Higgins, Greer Simpkin, Ivan Sen per Bunya Productions; origine: Australia, 2023; durata: 108 minuti.

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