Maigret di Patrice Leconte

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Maigret: fin dall’essenzialità del titolo il film di Patrice Leconte si presenta come il contenitore di un’atmosfera, un’epoca, un mondo:  la poetica di Georges Simenon e del suo personaggio simbolo ( nello specifico il romanzo Maigret e la ragazza morta), di cui si cerca di tradurre cinematograficamente la miracolosa combinazione di lucidità, malinconica e ironia, e la cura per il dettaglio che ricostruisce la stratificazione sociale e antropologica della Parigi degli anni ’50.

Ma prima di tutto, c’è il contenimento della grandezza del corpo e dello spirito di Gerard Depardieu, che occupa, con un silenzioso e pacato carisma, senza fagocitare il racconto e le immagini, uno spazio in cui è possibile leggere, tra le piaghe della sua carne cosi strabordante e pulsante sotto la pesantezza materica di un paltò e la linea classica del cappello, la condensazione di circa cinquant’anni di storia del cinema francese ed europeo, a cominciare dallo scapestrato, erotico e vitale Jean-Claude de I santissimi di Bertrand Blier (1974).

In questa fase autunnale della sua carriera, Jules Maigret sembra l’approdo più coerente per lui, magari per spirito di contraddizione dopo i tumulti e le passioni di ruoli più istintivi e sguardi autoriali più travolgenti e radicali . Quello del poliedrico Leconte, che passa da tentazioni e ambizioni  post Nouvelle Vague sulla forma e la sostanza del desiderio masculin-féminin (Il marito della parrucchiera, La ragazza sul ponte, Confidenze troppo intime) a più convenzionali e illustrative mise en scene di storie tra la commedia di costume sul potere aristocratico (Ridicule) e il dramma d’ambientazione storica con velleità di critica sociale  (L’amore che non muore) è un sguardo che in questo caso non ha l’intenzione di ribaltare o mettere in discussione lo statuto narrativo dell’immagine e il suo essere a servizio della parola, del gesto, della progressione drammaturgica. C’è all’apparenza il ritorno al basico piacere dell’intreccio giallo offerto dalla sapienza immaginifica di Simenon,  in questo caso pieno di riferimenti al sottobosco desolante delle giovani di provincia che aspiravano a diventare star nella fiorente industria cinematografica dell’epoca.

Ed è su una di loro, drogata e uccisa a coltellate, che Maigret/Depardieu viene chiamato ad indagare e comincia, con il proprio meticoloso metodo investigativo, a ricostruirne la rete di relazioni, incontri e movimenti, fino ad arrivare alla soluzione dell’enigma, il cui scioglimento non è mai tanto sorprendente come colpo di scena ( si puoi intuire come sia andata fin dal concitato incipit), quanto per il valore rivelatore, da confessionale laico,  al quale sono sottoposti i colpevoli,  in un conflitto tra vergogna e spregiudicatezza, senso di colpa e assenza di scrupoli, cinico opportunismo e disperato bisogno d’amore. L’originalità e la forza di Maigret, che qui Leconte riesce a cogliere attraverso la sottigliezza recitativa di Depardieu, risiedono nella capacità di calarsi con tutti i sensi dentro le situazioni, nella pratica del guardare e dell’ascoltare i suoi interlocutori, vittime o carnefici che siano, con una sorta di pietas, senza mai essere giudicante o inquisitorio,  bensì  da psicologo attraversato dal sussulto di una compassione paterna. E la paternità, in particolare nel romanzo qui adattato, ha una rilevanza fondamentale nella sensibilità dell’uomo prima che del commissario, come sa chi ne conosce la biografia pregressa: Maigret ha infatti una figlia morta neonata e assorbita, come evocazione e rimpianto, nel ménage quotidiano di tenera complicità e intima insoddisfazione condiviso assieme alla moglie.

La conoscenza, durante le indagini, di un’altra ragazzina, in fuga verso la capitale dalla piattezza dalla sua piccola cittadina d’origine,che potrebbe avere la stessa sorte della vittima e che i coniugi Maigret accolgono in casa per darle protezione (e, inconsciamente, per vivere il lampo domestico di una genitorialità negata), apre poi ad una proliferazione di specchi e di doppi, caratteristica topica del noir in ogni sua declinazione . Se la mimesi come escamotage per squarciare la parete dietro cui si nasconde la verità richiama ovviamente la body double Judy/Madeleine dell’ hitchcockiano La donna che visse due volte,  la vicenda del volto fra la folla che vuole essere ammirato e amato nell’amplificazione del grande schermo , e finisce invece nel riquadro della foto sulla pagina di cronaca nera di un giornale, fa il palio con la Black Dahlia del romanzo di James Ellroy e del film omonimo di Brian De Palma, ispirato a un fatto realmente accaduto (il brutale assassino della starlette Elizabeth Short).

Molta carne al fuoco quindi, anche se, al contrario di Hitchcock e di De Palma, Leconte spegne il potenziale fiammeggiante e melodrammatico e imbocca il viale del tramonto di un genere che è stato da tempo conformato ai codici della serialità televisiva. Una reiterazione che contribuisce a stabilire un legame amicale ed empatico con lo spettatore, e lo porta a domandarsi  che cosa sia avvenuto il giorno prima e che cosa succederà il giorno dopo nella vita di Maigret una volta risolto il caso a cui sta lavorando ( e Un giorno dopo l’altro , struggente quanto mai malinconica canzone di Luigi Tenco, era l’ispirata sigla del Maigret televisivo italiano con Gino Cervi).

Questo sentimento di familiarità e di intimità colpisce nel segno ed è forse l’aspetto più riuscito di questa trasposizione simenoniana sterilmente retrò, della quale ci si chiede, nel riconoscerne le qualità a cominciare da una visione scorrevole (e un po’ inerme), quale sia la necessità di essere portata oggi al cinema, quando il suo più conforme orizzonte sembra essere quello di qualche piattaforma on-line, seppur specializzata in operazioni di egregia qualità.

È indubbio che ci sia una finezza di scrittura, come nella figura della matriarca della decadente e tarata famiglia dell’alta borghesia parigina (interpreta da Aurore Clement, anche lei memoir dalla luminosità un po’ spenta di tanto cinema d’autore)  che potrebbe a tratti evocare il tocco di uno Chabrol d’annata (Il fiore del male del 2003, d’altronde più impietoso e chirurgico).

E c’è un clima fantasmatico e mortifero troppo accentuato, con un rischio di compiacimento (la desaturazione dei colori fino ad un’opacità spettrale, un effetto ai limiti dell’estetizzante) che lascia ammirati ma un po’ estranei di fronte al trapassato teatro di personaggi-proiezioni con relativo carico di vizi privati e pubbliche virtù. Resterà  nella memoria il Maigret di Gerard, il suo essere origine e destinazione finale di un immaginario che scompare. Ci piacerebbe sentirlo fischiettare, mentre esce di scena, il motivo del brano di Tenco e magari ascoltarlo cantare la strofa finale : “Un giorno dopo l’altro, la vita se ne va, e la speranza è ormai un’abitudine…”.


In sala dal 15 settembre

Maigret – Regia: Patrice Leconte; Sceneggiatura: Patrice Leconte, Jerome Tonner; Fotografia: Yves Angelo; Montaggio: Joelle Hache; Musica: Bruno Coulais; Interpreti: Gerard Depardieu, Melanie Bernier, Aurore Clement, Andre Wilms, Jade Labeste, Anne Loiret, Clara Antoons; Produttore: Philippe Carcassone, Jean-Louis Livi; Origine: Francia, 2022; Durata: 88’; Distribuzione: Adler Entertaiment.

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