Il tredici novembre, in Europa, è come l’undici settembre in America. Esiste un “prima” e un “dopo” gli eventi che ebbero luogo al Bataclan di Parigi, lo storico café-concert situato poco più in là di Place de la République e monumento al culto tutto francese del varietà come stile di vita. Purtroppo, dal 2015 ai giorni nostri, la “sala da concerto” si tinge, nell’immaginario occidentale, di sfumature lugubri – lo stesso accadde, nemmeno vent’anni prima, alle celebri Twin Towers di New York. Da vessillo della civiltà ad allegoria della barbarie: bastano pochi minuti per ridurre in macerie le cosiddette “Torri gemelle”, così come le tre sillabe che compongono la parola Ba-ta-clan sembrano evocare, ancora adesso, soltanto scenari di morte e terrore.
Non c’è bisogno di abbandonarsi a digressioni. L’attacco terroristico durò svariate ore: ognuno, quella sera, ha avuto il privilegio e la disgrazia di seguire la tragedia in tempo reale, di osservare in prima persona, di nascondersi fra le pieghe di questa enorme magione chiamata Europa e riempitasi improvvisamente di crepe profonde come voragini. L’impatto emotivo è stato enorme: per la quantità di vittime, per la modalità d’esecuzione, per la morbosa attenzione mediatica riversatasi all’interno e all’esterno di quelle quattro mura. Nei giorni successivi, la gente vagava come dentro un brutto sogno, accendendo candele e spaventandosi ad ogni rumore “fuori posto”. Un palloncino che scoppiava era in grado di provocare un boato. Quest’atmosfera surreale, da incubo fattosi realtà, durò all’incirca fino all’estate successiva. Le vacanze natalizie furono disgraziatamente tristi, Parigi era isolata dal mondo – come durante la guerra.
E, in effetti, di guerra si trattava, anche se noi non lo sapevamo: November – I cinque giorni dopo il Bataclan, ultima opera del regista e sceneggiatore Cédric Jimenez, è il racconto di una battaglia avvenuta “dietro le quinte” dell’opinione pubblica, delle dirette streaming, dell’angoscia collettiva, degli innumerevoli “io ero poco più in là” o “mia madre era nel locale a fianco” uditi in quel tardo autunno franco-europeo. L’autore rimette in scena il “prima” e il “dopo” gli eventi che ebbero luogo al Bataclan – il “mentre” già lo conosciamo: non c’è bisogno di abbandonarsi a digressioni, né di gingillarsi malignamente con le fragilità emotive dello spettatore in sala.
In poche parole, il film è un’inchiesta, ma è anche un documentario e un polar dalle sfumature tetre (come, del resto, in ogni polar che si rispetti): nello scenario che intercorre fra il 13 e il 17 novembre, la luce si affievolisce fino a scomparire, lasciandoci brancolare nel buio di una Parigi in trappola. La notizia dell’attentato scivola fra gli angoli neri delle stazioni di polizia, proiettandosi sul display delle telecamere di sorveglianza e nei volti di chi risponde al telefono, o di chi trascrive indirizzi potenzialmente sospetti. Fatichiamo a orientarci per questa Capitale che all’improvviso non è più Capitale: a mancare sono le coordinate emotive, l’evento storico dietro al fatto di cronaca, le persone dietro agli agenti di polizia, l’incapacità di mantenere la distanza di sicurezza fra noi e ciò che a noi potrebbe succedere. Così, ci ritroviamo a seguire le indagini della squadra antiterrorismo composta da Héloise (Sandrine Kiberlain), Fred (Jean Dujardin) e Ines (Anaïs Demoustier), ma abbiamo l’impressione di sfogliare un buon romanzo giallo, o un episodio di Jack Ryan. Nessuna luce, nessun punto cardinale, nessuna empatia.
È la quasi totale assenza di coinvolgimento umano a rendere la pellicola notevole: la cinepresa rimane ancorata alla topografia della città, addentrandosi negli appartamenti della gente comune, salendo e scendendo le scale all’interno di edifici tutti uguali, vagando per le strade in cui migliaia di persone, ogni giorno, s’inseguono. Il Bataclan scompare, così come scompaiono (almeno in parte) i volti delle vittime, lasciando il posto ad una lunga concatenazione di testimonianze, tracce, ricordi sempre e comunque narrati in terza persona. Gli avvenimenti vengono sostituiti dai dettagli, come un paio di scarpe da tennis arancioni, un’automobile nera, un’arma inceppata, o l’innaturale silenzio dopo i primi spari. La sobrietà diventa, paradossalmente, l’unico strumento in grado di raccontare un trauma, di raccoglierne i frammenti, di scattare un’istantanea senza abbandonarsi ad inutili digressioni.
Il pericolo, certo, è quello di finire in una sorta di limbo a metà fra ricostruzione e rielaborazione, fra documento e fantasia cinematografica. Non sappiamo bene dove dirigere lo sguardo: nessuna luce, nessun punto cardinale, nessuna empatia sono inclusi in questo enorme quadro di genere dai contorni fin troppo ben delineati. “Siamo addestrati per questo, ma se il carico emotivo è eccessivo, potete farvi da parte”, dichiara Fred alla sua squadra la sera stessa dell’attacco, quasi come se dopo l’undici settembre ci dovesse per forza essere un tredici novembre. Una riflessione, quest’ultima, che nel film-inchiesta di Jimenez non trova il giusto respiro per poter maturare. “Non lasciamo spazio alle emozioni personali”, aggiunge Dujardin al termine del suo discorso: come dire, non lasciamo spazio al terrore. Ma nemmeno ad un’eventuale consolazione.
In sala dal 20 aprile 2023
Cast & Credits
November – I cinque giorni dopo il Bataclan (Novembre); Regia: Cédric Jimenez; sceneggiatura: Olivier Demangel; fotografia: Nicolas Loir; montaggio: Laure Gardette; interpreti: Jean Dujardin (Fred), Anaïs Demoustier (Ines), Sandrine Kiberlain (Héloise), Jérémie Renier (Marco), Lyna Khoudri (Samia), Stéphane Bak (Djibril), Cédric Kahn (Martin), Sofian Khammes (Foued), Sami Outalbali (Kader); produzione: Récifilms et Chi-Fou-Mi Productions ; France 2 Cinéma, Studiocanal et Umedia; origine: Francia 2022; durata: 100’; distribuzione: Adler Entertainment.