Pinocchio di Guillermo del Toro

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Questa non è la storia di Pinocchio. Questa è la storia di Guillermo del Toro che ci narra la storia di Pinocchio.

Sulle (abissali) differenze che intercorrono fra il romanzo di Collodi e l’ultima fatica del regista messicano non ci soffermeremo più di tanto. E il grande classico Disney (Anno Domini 1940) l’abbiamo, per il momento, archiviato nel cassetto dei ricordi. Questo non è un racconto di formazione. Non è una fiaba, non è un vero e proprio aneddoto. Ciò che stiamo per vedere non è mai accaduto, o meglio, è accaduto eccome, solo non nei modi e nei tempi che ci saremmo aspettati. Insomma, il Pinocchio di Guillermo del Toro non sa bene dove inserirsi, ma preferisce fluttuare coraggiosamente fra il palcoscenico delle marionette dove tutto è già stato scritto e l’immenso oceano della vita dove nulla è mai scritto.

Realizzato attraverso la tecnica dello stop-motion, il lungometraggio è la prima opera d’animazione autografata a quattro mani da Mark Gustafson e dal cineasta che, già nel 2006, mise alla prova il suo talento visionario nell’epopea fantastica Il labirinto del fauno. Il film, in effetti, si presenta come un compendio degli orrori – e delle delizie – di cui l’umana esistenza è pervasa: fra le rovine assolate di un’Italia da cartolina (un’Italia, fra l’atro, non certo dissimile da quella per così dire “collodiana”), zampettano i consueti mostri, gli insetti e gli scherzi della natura che popolano un immaginario cinematografico riconoscibilissimo.

Dunque, dicevamo: questa non è la storia di Pinocchio. Questa è la storia di Geppetto e di suo figlio Carlo, scomparso prematuramente nel 1916 a causa di un bombardamento Austro-Ungarico. Questa è la storia di un lutto che non può essere rimarginato. Questa è la storia di un secolo, il Novecento, che il suo romanzo di formazione non l’ha mai ultimato, che non è mai davvero cresciuto, che dagli errori commessi non ha mai imparato un bel niente. Questa è la storia di un padre infelice, di un’assenza impossibile da colmare, di un dolore impossibile da dimenticare, di una colpa impossibile da perdonare.

Pinocchio viene alla luce in questo modo – ovvero: da un pino stregato sorto come per incanto sulla tomba del defunto Carlo. Il bambino-marionetta entra in scena a una buona mezz’ora dall’incipit, quasi non fosse il protagonista della sua fiaba, come se si trattasse di presentare al pubblico una semplice comparsa: e, in fondo, Pinocchio non è che un feticcio, il rimpiazzo imperfetto del figlio perfetto ormai deceduto. Pinocchio è l’ombra di un passato mai rimosso, l’immagine deforme dei giorni felici rimembrati in un tempo triste.

Pinocchio nasce in una notte buia e tempestosa, dalle mani ubriache di un Geppetto ormai ridotto in miseria, nella rabbia e nella sofferenza di un’epoca (quella fascista) che non aveva nient’altro da offrire. Nel suo torace di pino scolpito alla bell’e meglio abita un grillo solitario dai baffi ottocenteschi e dall’animo pedantesco. Il suo corpo è enorme, il viso è largo e attraversato da un ghigno indecifrabile, braccia e gambe sono sottili come quelle di un ragno, il naso è (perfino quando di bugie non se sentono) troppo lungo, il busto è curvo e ondulato come un vaso da fiori vuoto, il cranio pesa sulle fragili membra, le spalle sono ricoperte di chiodi arrugginiti e piantati nel legno con eccessiva foga.

Pinocchio non dovrebbe vivere, e invece vive per una strana burla del fato nei confronti del vecchio falegname. Pinocchio è il frutto di un’entropia universale a cui nessuno – nemmeno la morte in persona – può sfuggire. A donargli l’anima è infatti una sorta di Parca che, con la fata turchina, non sembra avere molto in comune. Streghe, Maghi e animali parlanti non esistono: a prendere parola e a “muovere le fila” sono forze elementari, qui in forma di fauni o di muse inquietanti che paiono uscite da un dipinto metafisico. Come tutti gli “scherzi della natura” a cui Del Toro consacra la sua cinepresa, Pinocchio possiede il dono-condanna dell’immortalità ed è in grado di sgattaiolare da un palcoscenico all’altro – o meglio: dall’al di là all’al di qua. Dell’idillio disneyano a cui eravamo abituati non rimangono che le briciole.

Pinocchio è una creatura sgradevole: a farci storcere il naso sono le sue grida animalesche, il suo entusiasmo vorace, la sua andatura da millepiedi, la sua proverbiale stupidità. E invece no, ci intima il regista: le creature sgradevoli potremmo essere noi. Così, scopriamo che l’inesorabile scorrere degli anni ha trascinato Geppetto e la sua bella Italia nel pieno del regime fascista. Siamo, come direbbe Gabriele Mainetti, nell’epoca dei freaks, nonché della logica perversa che trasforma la virtù in vizio, la pace in assassinio, l’ordine in caos, l’ubbidienza in servilismo. Ad imperare sono abomini di ogni genere: il famigerato Paese dei Balocchi si fa campo militare, Lucignolo viene maltrattato dal padre-podestà, il Gatto e la Volpe si riducono ad una scimmia ammaestrata Spazzatura (si noti la voce in oriuginale di Cate Blanchett!) e al suo padrone, un impresario teatrale scolpito sul modello del terribile Postiglione. Avete presente il classico Disney? Avete presente la scena della Locanda dell’Aragosta, quella in cui il Gatto e la Volpe fumano e bevono birra con un bizzarro ometto panciuto? Ecco, quello è il Postiglione, o l’Omino del Carro, un demonio avido che traffica in bambini-ciuco, un essere mefistofelico al cui confronto Mangiafuoco pare un agnellino. In termini di crudeltà, il Postiglione disneyano non ha rivali: non ne siamo sicuri, ma il Conte Volpe di Del Toro sembra ispirarsi proprio a lui.

In un simile microcosmo, Pinocchio è l’eroe che ci serve, il dissidente che tramuta la mostruosità in grazia, la pecora nera che potrebbe disinnescare l’orrida macchina da guerra novecentesca, il grillo parlante di sé stesso e delle nuove generazioni. Con la maestria di un artigiano, il regista messicano scardina l’infrastruttura del racconto originale, spezzando e ricomponendo i frammenti come Geppetto ubriaco nel suo laboratorio. La sua marionetta non somiglia tanto al ragazzo di legno descritto da Collodi, quanto ad una sorta di Ulisse in grado d’attraversare gli inferi uscendone sempre illeso, ma ogni volta più bramoso. Se Pinocchio non sarà mai un fanciullo in carne ed ossa, ad essere vera è la vita che lo circonda, il mondo che lo accoglie “fra le sue braccia”, l’assioma secondo il quale “quel che accade, accade, e infine ce ne andiamo.”

Su Netflix (purtroppo non in sala)


Cast & Credits

Pinocchio di Guillermo del Toro  – Regia: Guillermo del Toro, Mark Gustafson; sceneggiatura: Guillermo del Toro, Patrick McHale; fotografia: Frank Passingham; montaggio: Ken Schretzmann; voci: Gregory Mann (Pinocchio, Carlo), Ewan McGregor (Sebastian il Grillo), David Bradley (Geppetto), Ron Perlman (podestà), Tilda Swinton (Spirito del Bosco, Morte), Christoph Waltz (Conte Volpe), Cate Blanchett (Spazzatura), Tim Blake Nelson (conigli neri), Finn Wolfhard (Lucignolo), John Turturro (dottore), Burn Gorman (prete), Tom Kenny (Benito Mussolini); produzione: Netflix Animation, Jim Henson Productions, Pathé, ShadowMachine, Double Dare You Productions, Necropia Entertainment; origine: USA, Messico 2022; durata: 121’; distribuzione: Netflix

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