Sick of Myself di Kristoffer Borgli

  • Voto
3.5

In due parole la sinossi: a Oslo una ragazza assume deliberatamente  un farmaco pericoloso per attrarre su di sé l’attenzione che desidera. All’inizio il piano funziona, ma poi deve fare i conti con le conseguenze indesiderate del suo gesto.

“È il tempo dell’onestà”. Il titolo campeggia sulla copertina di una rivista scandalistica. Il volto sfigurato della bella Signe (Kristine Kujath Thorp) dovrebbe farsi emblema di questa onestà che il sistema mediale dell’informazione vorrebbe promuovere. Il cinema stesso si è da sempre proposto come apparato di riproduzione del reale, spesso scontrandosi con gli altri media. Se uno dei mezzi per raggiungere il vero al cinema è stato attraverso l’identificazione spettatoriale, è anche vero che spesso il cinema ha giocato con il grado di veridicità delle proprie immagini e con lo sguardo del protagonista. Dal noir classico a Joker (2019), innumerevoli sono gli esempi di narratori in prima persona inaffidabili. Uno dei vertici assoluti nel cinema americano non può che essere il Rupert Pupkin interpretato da De Niro nel mai abbastanza celebrato Re per una notte (1982) di Martin Scorsese. Per Pupkin apparire è essere, per questo motivo il film rimane fedele al racconto che lui fa di se stesso. Ma suo malgrado, il film non può evitare di documentare le crepe del suo discorso, l’impossibilità di un pieno controllo del suo apparire e di esporlo per quello che veramente è: un ipocrita mitomane vittimista.
Il regista norvegese Kristoffer Borgli, alla sua opera prima, deve aver molto amato il film di Scorsese (appare come primo titolo nella sua top 10 dei più grandi film di sempre stilata per la rivista “Sight & Sound”). Di Re per una notte il regista riattualizza le velleità critiche alla società dello spettacolo, ampliando il discorso fino a toccare l’epidermide della protagonista. Se il film di Scorsese rappresentava ancora una società “solidificata” attorno allo stardom televisivo, al “nome di un padre-surrogato” come il conduttore televisivo del talk show, in Sick of Myself la società è talmente liquida da evaporare, un po’ come l’attenzione delle persone di fronte agli avvenimenti. Troppo parcellizzata l’esperienza quotidiana per credere di poter ottenere un riconoscimento sostanziale. Inizialmente Signe prova con dei furtarelli insieme al proprio fidanzato Thomas (Eirik Sæther), ma il primo a non prestare troppe attenzioni alla ragazza è proprio lui, così preso dal lavoro di artista. Poi la rivelazione: un incidente, l’impatto devastante di una morte vista in diretta, il senso di spaesamento, il trauma. Se c’è ancora qualcosa di sostanziale nella società evaporata è forse la morte, la malattia, come ben ha rivelato la pandemia.

Nella società del benessere la malattia è il grande nemico da respingere il più rapidamente possibile ma proprio per questo anche il centro d’attenzione dell’informazione che deve sfruttare il terrore e l’impatto irriducibile del trauma. Così Sick of Myself propone il primo grande stravolgimento narrativo: è la protagonista a provocare la propria malattia in un cosciente progetto auto-lesionista al fine di essere riconosciuta come malata e quindi poter apparire nel sistema mediale. Non c’è qui alcun controllo biopolitico del corpo da parte di una società distopica, bensì è l’individuo che credendo di essere padrone del proprio corpo decide di martoriarlo. Peccato che il tentativo della protagonista di mantenere sotto controllo la situazione fallisca sempre. Il gioco della ragazza, infatti, regge soltanto finché le condizioni del corpo permettono alla protagonista di adeguarsi ai paradigmi estetici del tempo e poter quindi vendere la propria immagine. Nel tentativo di adeguazione ai modelli estetici vediamo lo stesso conformismo di Pupkin, ma qua è ancora più marcata e criticata la necessità di distinguersi da parte dell’individuo che giunge anche a trasformarsi in un mostro pur di apparire.
In questo senso formidabile è il ribaltamento, anche iconografico, della figura mostruosa, di cui si può citare tra gli apici cinematografici Occhi senza volto (1960). Se nel film di Franju vi era un tentativo di celare l’orrore, di ridare un volto perfetto all’individuo sfigurato, scoprendo però l’irriducibilità degli occhi, della persona dietro il volto, in Sick of Myself il mostruoso è da sfoggiare con vanto, è fonte di godimento per la protagonista perché le permette di apparire e quindi di essere. Perché in fondo il vero mostro è proprio quel che c’è dietro il volto, è essere se stessi. Signe è una ragazza profondamente infelice, depressa, melanconica, che si sente incompiuta e che sogna di compiersi apparendo.

Come già in Re per una notte, lo spettatore visualizza i desideri e le paure della protagonista come se fosse la realtà e a un certo punto viene ipotizzato anche che si produca un film sulla sua storia, giocando con il fatto che per lo spettatore lo stesso film che sta assistendo potrebbe essere la realizzazione di quel sogno. Via via che la malattia degenera e il delirio psicotico della protagonista si estende, lo spettatore è sempre più coinvolto in un cortocircuito di sogno e realtà. L’onestà del racconto e l’identificazione con la protagonista sono trappole tanto quanto il sistema mediale dell’informazione. Il film presenta una “clinica dell’io senza inconscio” documentando i sintomi del soggetto ma a partire da un’identificazione con lo stesso soggetto ipocrita che nega e cela i propri sintomi. Ma l’impossibilità da parte dell’individuo di reggere il proprio gioco svela la falsità del documento, la manipolazione delle informazioni fornite, permettendo allo spettatore di sviluppare un atteggiamento di scetticismo rispetto alle possibili strumentalizzazioni.
Ciò che resiste ed espone la trappola del soggetto è il corpo stesso nella sua degenerazione psico-fisica. A differenza del cinema di Cronenberg segnato da una deflagrazione spettacolare del corpo, la resistenza qui è silenziosa, ma è tale perché si tratta di un soggetto logorroico, il cui racconto, dovendosi inserire in un perpetuo flusso di informazioni, risulta così chiassoso da sovrastare le richieste del corpo. È in questo silenzio del corpo che lo spettatore può forse imparare la più grande lezione: perché in un mondo così freneticamente alla ricerca di stimoli, l’individuo deve essere attento, ancor più che al divario tra finzione e realtà, a quello tra corpo e linguaggio. Se oggi la malattia risulta così onesta è proprio per la verità del corpo che manifesta e che rimane irriducibile rispetto a qualsiasi presa in ostaggio del linguaggio.

In sala dal 5 ottobre 2023


Sick of Myself (Syk pike) – Regia e sceneggiatura: Kristoffer Borgli; fotografia: Benjamin Loeb; montaggio: Kristoffer Borgli; musica: The Turns; scenografia: Mette Haukeland; interpreti: Kristine Kujath Thorp, Eirik Sæther, Fanny Vaager, Sarah Francesca Brænne, Fredrik Stenberg, Ditlev-Simonsen, Steinar Klouman Hallert, Ingrid Vollan, Andrea Braein Hovig, Henrik Mestad, Anders Danielsen Lie, Frida Natland, Guri Hagen Glans, Mathilda Höög, Seda Witt; produzione: Dyveke Bjørkly Graver e Andrea Berentsen Ottmar per Oslo Pictures, Mimmi Spång per Garagefilm International; origine: Norvegia/Svezia/Danimarca/Francia, 2022; durata: 95 Minuti; distribuzione: Wanted Cinema.

 

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