Torino F.F.: Cerrar los ojos di Victor Erice (Fuori Concorso)

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Anno 1947. Nella villa di Triste-le-Roy (in omaggio alla borgesiana villa del racconto La Morte e la Bussola) un Re triste e morente incarica un detective della missione di ritrovare sua figlia, partita per la Cina con sua madre e mai più rivista. Il suo ultimo desiderio è uno sguardo unico, quello che solo una figlia può donare al proprio padre. È la prima sequenza di La mirada del adiós, film rimasto incompiuto e di cui oggi rimangono soltanto due sequenze, due rulli lasciati impolverati nell’archivio del montatore.

Anno 2012. Un programma televisivo che si occupa di indagare di persone scomparse contatta Miguel Garay, il regista di La mirada del adiós, per una puntata dedicata all’attore Julio Arenas, il detective della pellicola, la cui improvvisa sparizione durante le riprese del film impose la fine della produzione. È l’occasione per l’anziano regista di riscoprire i volti, segnati dal tempo, del proprio passato: il montatore Max, la figlia di Julio, Ana (omonima della protagonista dello Spirito dell’alveare, anch’essa interpretata da Ana Torrent), l’amata Lola, infine il ritrovato Julio che, però, rinchiuso da anni in una casa di riposo, non riconosce il suo di volto.

Miguel è convinto di poter far tornare la memoria del proprio passato, della propria identità, all’amico Julio, colpito, ipotizza uno psichiatra, da un trauma legato all’abuso di alcool. Gli mostra una foto del periodo insieme in marina, ma per Julio quello nella foto non è lui, e neanche Miguel è quel Miguel. Di cosa è indice una foto se il lavoro del tempo ha corrotto un volto, mutato un’identità? Ana apre la porta, rivede per la prima volta il padre, dona il suo sguardo, unico, a un padre che, però, non lo riconosce. “Soy Ana” ripete, e arretra, atterrita. È il terrore che il padre non riconosce lo sguardo unico di una figlia o che lo spettatore non riconosce più il volto unico della protagonista dello Spirito dell’alveare?

Ana Torrent

It’s time for a cowboy to dream” cantava Dean Martin in Un dollaro d’onore, un verso del pezzo My Rifle, My Pony and Me che torna anche in Cerrar los ojos, il ritorno al lungometraggio dopo 31 anni dell’anziano cowboy Victor Erice con il suo fucile (la macchina da presa) e il suo “pony” (Ana Torrent) per sognare ancora del potere miracoloso della visione cinematografica. Per Erice l’esperienza cinefila è paradigmatica dell’esperienza in generale, per questo utilizza il momento della visione al buio in sala per esplorare temi come la memoria, l’identità, il riconoscimento, l’identificazione.

Se Lo Spirito dell’alveare legava la scoperta del mondo (della morte, della violenza fascista, del male) da parte della bambina Ana alla visione del Frankenstein di James Whale, qui al centro vi è invece l’esperienza della vecchiaia, della malattia, ma in particolare dell’amnesia. Ma questa è un’esperienza già presente nella visione di un film: nel buio della sala, scordiamo il nostro mondo per ritrovarne uno nuovo, dimentichiamo i ruoli precedenti di un attore per affidarci a una nuova identità, ci identifichiamo nel suo sguardo per ritrovare il nostro. Apriamo gli occhi per assistere a un miracolo, li chiudiamo per immaginare il nostro mondo dopo la visione. Riscopriamo noi stessi a ogni visione.

Lo stesso attore si deve scordare ogni volta della propria parte. L’attore è al tempo stesso un travestito e uno smemorato, come già ci aveva detto Erice nel cortometraggio La Mort Rouge. Per questo Miguel è convinto che Julio, da buon attore, abbia finto la sua scomparsa, e che ora possa ritrovare la propria memoria, riscoprire sé stesso. Ma solo una verità emozionale può sbloccare un corpo smemorato. Solo se colpito dal trauma della visione, dal raffinato lavoro di messa in scena di uno sguardo, un corpo può riscoprire sé stesso.

Miguel organizza in una sala la proiezione di La mirada del adiós e così Julio rivede per la prima volta  il suo corpo nello schermo e lo spettatore vede per la prima volta la seconda sequenza del film, la scena finale ambientata sempre nella villa di Triste-le-Roy. Ma non si tratta semplicemente di assistere a uno “spettro senza volume”, all’indice di un corpo colto dall’occhio di una macchina. Nella sequenza il triste Re rivede lo sguardo unico di sua figlia che però non riconosce il padre. La scena finale della Mirada rimanda quindi all’esperienza di Miguel e ricalibra continuamente la sua identificazione, verso lo spettro del suo corpo passato, verso l’irriconoscente figlia, verso il morente padre desideroso del miracolo di uno sguardo.

Nel cinema, secondo l’anziano cowboy Erice, non si tratta semplicemente di rievocare corpi (come quello di Ana Torrent) o canti (come My Rifle, My Pony and Me), ma di immetterli in un complesso sistema di identificazioni, di fantasmatizzarli, affinché possa emergere per lo spettatore una verità emozionale. A differenza di quanto dice Max prima della visione della sequenza, i miracoli al cinema continuano a esistere anche dopo la morte di Dreyer. Basta aprire gli occhi alla visione del film e chiuderli alla sua conclusione, riscoprendo di nuovo il nostro mondo.


 

Cerrar los ojosRegia: Victor Erice; sceneggiatura: Victor Erice, Michel Gaztambide; fotografia: Valentín Álvarez; montaggio: Ascen Marchcena; musica: Federico Jusid; scenografia: Curru Garabal; interpreti: Manolo Solo, Jose Coronado, Ana Torrent, Mario Pardo, María León, Helena Miquel; produzione: Tandem Films, Nautilius Films, Pecado Films, La Mirada del Adiós A.I.E, Pampa Films; origine: Spagna/Argentina, 2023; durata: 169 minuti.

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