Niente di nuovo sul fronte occidentale (4 Oscar) – da Erich Maria Remarque a Edward Berger

  • Voto

Quando nel gennaio del 1929 Erich Maria Remarque pubblicò in volume Im Westen nichts Neues (prima traduzione italiana: All’ovest niente di nuovo, uscita nel 1944; seconda traduzione italiana: Niente di nuovo sul fronte occidentale, uscita nel 1950, rielaborata finalmente nel 2016 presso Neri Pozza, la traduzione, fra tagli della censura, moralismi e arcaismi, era diventata illeggibile) il successo fu strabiliante: nell’arco di neanche tre mesi erano state vendute 450.000 copie.

Il libro era già uscito negli ultimi mesi del 1928, in forma di feuilleton, sulla “Vossische Zeitung” e godeva dunque già di una importante notorietà; le ragioni di questo successo erano da attribuirsi a fattori che, nell’immediato, si sarebbero forse dovuti definire contingenti, ma che nel corso del tempo hanno fatto del libro un classico.

Il libro riesce a intercettare un mood che nessun testo degli anni ’20 aveva avuto il coraggio di esprimere con altrettanta spietata e lucida chiarezza ovvero l’insensatezza della guerra, dando sfogo alla generazione perduta, la generazione dei giovanissimi che fino ai giorni immediatamente precedenti all’armistizio era stata mandata al macello, a combattere per un fazzoletto di terra, visto che l’idea originaria del Blitzkrieg voluta dai vertici militari tedeschi si era rivelata fin da subito impraticabile. E Remarque l’insensatezza della guerra la denunciava attraverso una sapiente fusione di documentazione e autobiografia, di finzione e saggismo, il tutto dalla prospettiva di un ventenne, Paul Bäumer, arruolatosi due anni prima e che avrà la sventura di morire proprio quando, finalmente, la guerra stava finendo.

Il libro è un’accusa feroce ma al tempo stesso sobria nei confronti del fallimento totale della generazione dei padri e, soprattutto, degli insegnanti che hanno plagiato e indotto giovani inesperti e ingenui ad esaltarsi per i valori della nazione, della patria. Se il successo di quel libro è dovuto al messaggio chiaro e inequivocabile – all’interno del quale anche la solidarietà fra i compagni di sventura non rischia mai di pervenire a una trasfigurazione – di non minore importanza risulta lo stile, diciamo così diaristico, che ha fatto di questo romanzo un esempio quasi da manuale di quella corrente che è passata alla storia non solo letteraria con il termine Neue Sachlichkeit, ossia Nuova oggettività.

Già nel 1929 Carl Laemmle, fondatore della Universal, produttore di origine sveva in visita in Germania, acquista i diritti per la trasposizione cinematografica del film, pur sapendo che la distribuzione in Europa, segnatamente in Germania, non sarebbe stata facile, perché il libro, oltre ad ottenere una notevolissimo seguito presso coloro che avevano vissuto le stesse esperienze descritte nel romanzo, si era rivelato profondamente divisivo, soprattutto presso coloro che ritenevano un delitto infangare proprio quei valori di idealismo nazionalista, patriottico, sciovinista e revanscista che ben presto sarebbero stati identitari per chi si apprestava ad andare al potere.

All Quiet on the Western Front (1930)

E poi come poteva essere accettato il fatto che proprio gli americani, coloro che avevano contribuito a sconfiggere i tedeschi obbligandoli a firmare un armistizio e un trattato di pace ignominiosi si appropriassero del diritto di raccontare le (pur, dal punto di vista nazionalista, mendaci) vicende dei soldati tedeschi? Una prima distribuzione in Germania (dicembre 1930) del film, qua e là tagliuzzato, di Carl Laemmle e Lewis Milestone (il regista, come se non bastasse, produttore e regista sono entrambi ebrei) fu un evento che diede vita a tafferugli di portata nazionale, in cui, con Goebbels in prima linea, gli adepti della NSDAP si scatenarono in una campagna di boicottaggio ai danni del film. E le proteste ebbero un tale successo che già pochi giorni dopo la distribuzione del film venne sospesa per motivi di ordine pubblico, salvo poi, pochi mesi dopo, tornare nelle sale, non senza esser stato sottoposto a ulteriori numerosi tagli. Inutile dire che nel 1933, con la presa del potere da parte di Hitler, All Quiet on the Western Front scomparve dai cinema tedeschi per ricomparire solamente molto tempo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Giusto per chiarezza: in Italia durante il fascismo il film non è mai arrivato, e neanche il romanzo.

Pur diverso dal romanzo, il film di Milestone, di cui esiste sia una versione muta che una versione sonora (nella quale più degli stessi dialoghi contano i rumori) è diventato subito un classico del film bellico e pacifista, sia nell’attitudine ideologica (sostanzialmente identica a quella del romanzo) sia, forse soprattutto, nelle scelte formali: l’uso straniante del sonoro, le riprese, diremmo ancora post-espressioniste, volte a sottolineare la traumatizzazione dei soggetti, l’uso della macchina da presa (i carrelli in avanti) per documentare la vita nelle trincee. Da antologia la scena finale che descrive la morte del protagonista (che nel romanzo NON viene raccontata): la mano di Paul Bäumer che cerca di afferrare una farfalla e che viene colpita e girandosi lentamente di 90° ne documenta lentamente e metonimicamente la fine e poi la dissolvenza incrociata fra i soldati in marcia e le croci. Un grandissimo film, presente in tutte le liste dei più importanti film bellici (antibellicisti, pacifisti) della storia del cinema.

Circa cinquant’anni dopo, nel 1979, gli USA e la Gran Bretagna producono una seconda trasposizione con la regia affidata a Delbert Mann e alcuni importanti attori fra cui Donald Pleasance, Ian Holm, Ernest Borgnine. È una produzione televisiva (e si vede) che a differenza del film di Milestone non ha praticamente lasciato tracce.

La versione tv del 1979

E veniamo finalmente al 2022, anzi al 2021, quando nasce il progetto di una terza trasposizione cinematografica del romanzo di Remarque e la materia torna da dove era partita, ossia in Germania. Con i cospicui capitali di Netflix, la regia del film viene affidata a Edward Berger, nato nel 1970 e originario di Wolfsburg, la città della Volkswagen. Si tratta di uno di quei film che, a giudicare dal production design, farebbe pensare a un kolossal, ma che in realtà è costato “solamente” 20 milioni di dollari. Giusto per avere un termine di paragone: The Fabelmans è costato il doppio, Tár 35 milioni, Avatar 2 dieci volte tanto, Top Gun: Maverick 170 milioni, The Banshees of Inisherin invece è costato come il film tedesco, che in realtà non è solo tedesco, ma anche inglese e americano. Nessuno, fuori dalla Germania, conosce Berger, che per lo più si è cimentato in film per la TV; le (poche) cose che ha fatto per il cinema le conoscono solo coloro che frequentano la Berlinale: nel 2014 è uscito in concorso Jack, nel 2019, ma nella sezione “Panorama”, è stato presentato All My Lovings. Tutti film che non solo usciti da confini tedeschi, né diciamolo pure qualcuno ne sente la mancanza.

La terza trasposizione di Im Westen nichts Neues evoca, fra le molte possibili, almeno due domande: 1) come mai un’altra trasposizione? Che cosa ha in più (o di diverso) questo film rispetto ai due precedenti, soprattutto rispetto a quello di Milestone?; 2) perché così tanto successo? Ché, per chi non lo sapesse, il film ha ottenuto la bellezza di 9 nominations per l’Oscar (solamente Everything Everywhere All At Once ne ha avute di più: 11).

Partiamo dalla prima domanda, segnalando subito la principale differenza rispetto alle due trasposizioni precedenti e anche, soprattutto, al romanzo. A fronte di una durata pressoché simile rispetto agli altri due film (Milestone 136 minuti, Mann 150 Minuti, Berger 148 minuti) il regista tedesco insieme ai suoi due co-sceneggiatori decide di aggiungere quello che si potrebbe chiamare un sub-plot introducendo almeno due personaggi che nel romanzo non ci sono affatto, un personaggio realmente esistito ossia il deputato socialdemocratico Matthias Erzberger (interpretato da Daniel Brühl), che fungerà da capodelegazione al fine di pervenire a un armistizio con la Francia (il capodelegazione francese sarà invece l’inflessibile Maresciallo Foch) e un generale tedesco, il generale Friedrich (interpretato dall’eccellente attore tedesco Devid Striesow), personaggio di mera invenzione che incarna il militarismo ottuso di marca prussiana e vorrebbe trascinare sine die il massacro dei giovani tedeschi. Ciò conferisce al film una maggiore mobilità e varietà rispetto al plot del romanzo e anche rispetto agli altri due film, nei quali l’allontanamento dal claustrofobico mondo delle trincee e del fronte avveniva solo in occasione del breve e in fondo deludente ritorno a casa di Paul Bäumer, che invece nel film di Berger viene ad essere cancellato. La scelta di costruire un sub-plot è, bisogna dirlo, molto didascalica e poco sfumata, a segnalare due tipologie contrapposte di tedeschi: i buoni e i cattivi, questi ultimi soprattutto al limite del caricaturale.

Lo scopo principale di questa terza trasposizione consiste in primo luogo nella riappropriazione che verrebbe da chiamare simbolica di una materia che in Germania nasce, anche se – al netto delle aggiunte menzionate poco sopra – non è chiaro in che cosa davvero consista la specificità della prospettiva tedesca rispetto a quella anglofona: gli orrori, acustici e visivi, della guerra sono gli stessi, anche le tecniche di rappresentazione (quelle che dicevamo all’inizio) sono le stesse, il rifiuto della prospettiva omodiegetica del romanzo è lo stesso del film di Milestone (il film di Delbert Mann invece l’aveva mantenuta servendosi di una noiosissima voce fuori campo). Al netto, sul piano formale, del clamoroso maggiore dispiegamento di tecnologie, incluse com’è ovvio l’abbondante ed evidentissimo uso di quelle digitali, la principale (e a mio avviso, qua e là pericolosa) differenza sul piano sostanziale è una maggiore accentuazione della solidarietà virile fra i personaggi che configura una paradossale eroicizzazione dell’evento bellico, nel senso che il film di Milestone era, alla fine, molto più crudo e spietato, qui invece: vuoi l’uso esagerato dei primi piani, vuoi la funzione della colonna sonora, un certo barocchismo nella messa in scena il rischio estetizzazione è sempre dietro l’angolo, e l’estetizzazione quando si tratta di un film bellico, inutile dirlo, è pericolosa (come aveva dimostrato, non molti anni fa, 1917 di Sam Mendes).

Due parole sul successo e sulle nove nomination per gli Oscar. Beh, qui non bisogna essere delle aquile per rendersi conto che il film ha finito per trarre, nella sua sostanziale condanna dell’insensatezza della guerra (pur con tutte le contraddizioni appena segnalate) dall’invasione della Russia in Ucraina un paradossale profitto, diventando di fatto un film di estrema attualità, anche con l’auspicio più o meno utopico che un Erzberger e un Foch s’incontrino su un treno in piena campagna a stipulare finalmente un accordo.

Su Netflix

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *