Rotterdam Film Festival: Yamabuki di Yamasaki Juichiro (Concorso)

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Il Giappone, per noi Gaijin del ventunesimo secolo, è indissolubilmente legato alla rutilante entropia dell’ormai mostruosa città-mondo Tokyo, ai fiori di ciliegio sbocciati come per miracolo fra un canyon di cemento e l’altro, al coloratissimo trambusto sprigionatosi da fumetti e teleschermi, a ideogrammi inintelligibili e, infine, a qualche pallido monastero sopravvissuto alla crudele barbarie del nostro tempo.

Quando, nei primi anni 2000, l’universo nipponico sbarcò sulle sponde occidentali, esso lo fece mediante patinatissime illusioni quali il celebre Lost in Translation (2003), la cui sgarbata grazia valse a Sofia Coppola l’ambitissimo Oscar. Peccato che la realtà si trovi esattamente agli antipodi di Bill Murray e dell’incantevole Scarlett Johansson, e che la vecchia Edo non soggiorni affatto in lussuose camere d’albergo, fra maschere, semafori, nottate al karaoke e videogames. La regista tedesca Doris Dörrie, che nella terra di Hokusai girò svariati lungometraggi (Erleuchtung garantiert, 2000; Kirschblüten – Hanami, 2008; Kirschblüten & Dämonen, 2019), lanciò diversi anatemi contro l’epopea della giovane collega, definendola addirittura “rassistisch”. Di fronte a tali parole, ci ritroviamo ad abbassare il capo e a girarci i pollici. Forse, al di là della loro solitudine, Bob e Charlotte (così come la sottoscritta) sono ciechi: la loro Tokyo è uguale a New York, che è uguale a Londra o a Parigi.

Per i Gaijin del secolo scorso, invece, il Giappone è ancora un non-luogo dai cieli favolosamente blu e dai silenzi ingombranti, un microcosmo dalle tinte oniriche e dai pomeriggi grigio-azzurri. Gli amanti del leggendario Yasujirō Ozu ci capiranno al volo: quella narrata dall’autore di capolavori quali Tarda primavera (1949) e Il gusto del sakè (1962) è la parabola di una vita ai margini della precarietà stessa, il lascito testamentario di uno spazio saccheggiato, razziato, defraudato della propria identità.

In occasione di questo Rotterdam Film Festival, il (quasi) esordiente Yamasaki Juichiro riprende le fila sfibrate di una società ancora rurale, ancora dispersa oltre le Colonne d’Ercole, esclusa per scelta e necessità dal nostro presente globalizzato e omologato. Se dovessimo inserirlo nel panorama cinematografico odierno, Yamabuki s’incastrerebbe nella linea di continuità che da Ozu porta a Hirokazu Kore’eda e ai suoi affari di famiglia.

Ogni Gaijin, nessuno escluso, riscontra una certa difficoltà a penetrare il mistero che caratterizza lo sguardo giapponese, tutto rivolto al dettaglio e alla sua instabile caducità. Yamabuki è il nome della protagonista, una ragazzina di appena diciotto anni giunta all’epilogo della sua avventura liceale. Ma Yamabuki è anche un termine impiegato per designare uno strano arbusto dai fiori gialli e discreti, una rosa che germoglia la sera e attecchisce in qualunque tipo di terreno. Il senso della pellicola è interamente racchiuso in questa immagine: nato a Osaka e trasferitosi nel piccolo villaggio montano di Okayama, Juichiro ripercorre il suo stesso passato, trasportandoci fra polverose cave, case-scatola sovraffollate e foschi locali notturni che tanto ricordano quelli in cui i personaggi di Ozu si danno appuntamento. La tavolozza di colori rimane identica a quella adoperata da Wim Wenders in Tokyo-Ga (1985) e il 16 mm contribuisce a sospendere i minuscoli agglomerati urbani in un eterno (quanto squallido) protrarsi degli anni ’80-’90.

Al di là dei numerosissimi richiami al cinema di ieri e di oggi, però, il regista pare avere le idee molto confuse: la trama si smembra in milioni di frammenti che nemmeno il più bravo ceramista Kintsugi (l’arte di riparare tazze con l’oro) sarebbe in grado di ricondurre ad unità. Nell’apatica Maniwa, ultimo porto sicuro di un Giappone che non esiste più, s’incrociano due strade a senso unico: quella di Yamabuki, orfana di madre e figlia ribelle del capo della polizia locale, e quella di Chang-su, ex campione olimpico di origine sudcoreana costretto ad abbandonare le redini del proprio destriero per le leve dei cingolati utilizzati in cantiere. Egli condivide la quotidianità con una moglie e una bambina non sue, almeno fino a quando un misterioso incidente non sconvolgerà i suoi piani. Nell’istante in cui una borsa piena di denaro cadrà, senza apparente motivo, fra le sue braccia, l’uomo non saprà cosa farsene: il senso di colpa e di vergogna sprigionatosi da quell’oscuro capitale non è semplicemente tollerabile, e Chang-su finirà per scegliere la miseria.

Nel frattempo, Yamabuki abbandona la scuola per unirsi a silenti cortei di protesta il cui scopo non è chiaro nemmeno a lei. La ragazza assume la fisionomia del fiore che le dona il nome, ella si fa impenetrabile e inizia a crescere nelle tenebre. Il padre è in effetti distratto, assente e, come i padri di Ozu, del tutto incapace di esercitare la sua autorità. La madre, giornalista di guerra, è morta in Siria, inghiottita fra le fauci di un Paese straniero e sconosciuto. In un ultimo dialogo, Chang-su e Yamabuki tireranno le somme di un’umanità ormai sbriciolatasi come il terriccio durante la stagione secca: nel suo immaginario caotico e dissonante, Juichiro non fa che ricalcare le orme lasciate dai suoi predecessori, rifiutando il mondo impostogli dalla Storia. L’austera quiete della protagonista (nonché della cinepresa stessa) è completamente rivolta al presente globalizzato e omologato nel quale ogni Gaijin, così come ogni giapponese, si ritrova prigioniero.

 

Altre recensioni dal Festival di  Rotterdam: A Human Position di Anders Emblem (nella sezione Bright Future) https://close-up.info/a-human-position-di-anders-emblem/

 


Cast & Credits

Yamabuki  – Regia: Yamasaki Juichiro; sceneggiatura: Yamasaki Juichiro; fotografia: Tawara Kenta; interpreti: Kang Yoon-Soo, Inori Kilala, Kawase Yohta, Wada Misa, Miura Masaki, Kurozumi Hisao, Matsuura Yuya, Aoki Munetaka; produzione: Film Union Maniwa; origine: Giappone 2022; durata: 97’.

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