Rotterdam Film Festival: EAMI di Paz Encina (Concorso)

  • Voto

È tutto musica e tempesta, il nuovo documentario di Paz Encina, la regista sudamericana finora ricordata ai festival per cortometraggi quali Viento sur (2011) e il tripartito Río Paraguay (2010). Eami, la parola che dà il titolo alla pellicola, significa “foresta”, ma anche “mondo”: Eami è un’iperonimia o, se vogliamo, il classico “termine ombrello” che sotto la sua volta riunisce la terra e le sue creature. Fra l’abitato e l’abitante non vi è alcuna distinzione: Eami, come ogni lemma dalle radici millenarie, è il salice e l’uomo che sotto di esso si ripara, è la tigre e la sua preda, è il fiume e lo scafo che ne solca le acque. Eami è il vocabolo utilizzato dalla tribù degli Ayoreo per indicare la propria dimora millenaria, situata nel cuore del Gran Chaco, sotto i cieli umidi del Paraguay. Eami è vita e morte al tempo stesso o, per essere più precisi, l’esistenza solitaria condotta dai nativi e l’inevitabile apocalisse che ne minaccia i canti. Da oltre cinquant’anni, infatti, Eami viene ininterrottamente seviziato dalla cosiddetta civiltà: allevamenti intensivi, incendi, latifondi ne solcano le membra, stanando i suoi inquilini come api nell’alveare.

Eami è anche il nome di una ragazzina in perenne esilio, sopravvissuta come per miracolo al brutale saccheggio a cui una modernità per molti versi insensibile (in lingua zamuco, coñone) sottopone l’ancestrale bosco-casa. Paz Encina mette alla prova la nostra capacità emotiva, frammentando il lungometraggio in una serie di primi piani dai quali il passato emerge con le sue insopportabili grida. Visibile è soltanto ciò che rimane negli occhi delle popolazioni razziate: una palude nerastra, un albero dal fusto cavo, un deserto di cenere, il firmamento gravido di pioggia. A legare i fotogrammi è la voce degli oppressi: qui un padre richiamava a sé la cacciagione, lì una coppia celebrò il suo amore, qui due amici cercavano il miele, lì si riuniva la comunità nel suo incessante peregrinare e, sotto la volta celeste, ognuno parlava col vento.

Alla piccola Eami, unica superstite e grande madre di un popolo espatriato, non rimane che vagare senza meta verso l’esterno. La cinepresa riassume le istantanee di un microcosmo soltanto immaginabile, sovrapponendo origini e destino, atavica stasi e fatale evoluzione. L’obiettivo non intende svelarci nulla, questo film non è fatto per essere osservato, ma per avvincere lo spettatore in una rete di racconti: l’effetto è sorprendentemente disturbante, eppure non riusciamo a liberarci dalla tela di ragno che la narrazione, con i suoi innumerevoli filamenti, intreccia. Non c’è movimento, se non quello di una bambina che fugge o che ripercorre con nostalgia la propria infanzia. La violenza, la guerra, il lutto s’acquattano dietro a questo palcoscenico di orrori che una volta era, per l’appunto, “foresta”, ma anche “mondo”.

Al lento e insistente errare dei pochi redivivi rimasti in circolazione, la regista alterna la nuova quotidianità di chi, invece, fu catturato: nemmeno in questo caso ci è permesso scrutare oltre il dovuto. Ciononostante, siamo in grado di scorgere una magione in stato di semiabbandono, una stanza buia in cui i nativi vengono rinchiusi e vestiti con abiti occidentali, un paesaggio brullo su cui domina un terrore sotteso. Ma la sfera uditiva prende ancora una volta il sopravvento e immediatamente ci ritroviamo braccati dagli spari, dalle urla, dai latrati dei cani, dal vento che frusta il casolare con una crudeltà a tratti disperata. È come se la piena visione non ci fosse concessa, se non per brevi attimi. Il ranch dei coñone deturpa e sfregia Eami come un parassita divenuto troppo grosso. L’autrice non cede al voyeurismo e del massacro non rimangono che i residui, sillabati a voce o catturati da una vecchia telecamera di servizio.

Gli Ayoreo, difatti, si presentano sul grande schermo con gli occhi rigorosamente chiusi – un po’ per serbare le macerie della loro storia silvestre, un po’ per mimare con sapiente dileggio la nostra cecità. Rivolgendo lo sguardo dentro di sé, Paz Encina sovrascrive alla realtà il romanzo: Fra i corridoi dissestati della tenuta colonica, una strana donna in abiti ottocenteschi armeggia con panni e tegami arrugginiti, sbriga le faccende domestiche, si siede alla macchina da cucito, rammenda trine, vive come se nulla fosse. Ogni tanto (ma solo ogni tanto), la bora del Chaco spalanca le finestre altrimenti sprangate e un inquietante sbattere d’ali invade le stanze. Talvolta perfino la luce abbandona la fattoria, e allora si devono accendere le candele. Allora veniamo colti da un bizzarro timore e, come fantasmi, ci dirigiamo verso l’esterno, verso la fenditura che scorre imperturbabile tra foresta e mondo.


Cast & Credits

EAMIRegia: Paz Encina; sceneggiatura: Paz Encina; fotografia: Guillermo Saposnik; montaggio: Jordana Berg; interpreti: Anel Picanerai, Curia Chiquejno Etacoro, Ducubaide Chiquenoi, Basui Picanerai Etacore, Lucas Etacori, Guesa Picanerai, Lazaro Dosapei Cutamijo; produzione: Forest Films, Fortuna Films, Gaman Cine, Revolver Amsterdam, MPM Film, Eaux Vives Productions, Louverture Films, Piano, Barraca Producciones, Grupo LVT, Sagax Entertainment, Splendor Omnia, Sabaté Films; origine: Paraguay, Germania, Argentina, Paesi Bassi, Francia, USA 2022; durata: 83’.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *