16 millimetri alla rivoluzione: Intervista a Giovanni Piperno a cura di Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce

In occasione dell’uscita in sala il 26 febbraio di 16 millimetri alla rivoluzione, il documentario diretto da Giovanni Piperno che racconta la trasformazione del PCI nel passaggio critico e cruciale dagli anni ’70 agli  anni ’80, anche attraverso le sue forme di (auto) rappresentazione conservate tra i preziosi materiali d’archivio dell’ AAMOD, abbiamo conversato con il regista romano a proposito delle scelte narrative e di senso del film.

Domanda: Come avete integrato l’aspetto autobiografico del tuo rapporto con la storia del PCI e con Luciana Castellina con il racconto di una comunità contenuto nei materiali d’archivio?

Piperno: Il film solo con Luciana e l’archivio non funzionava: il racconto della Castellina è sempre un racconto politico, una narrazione collettiva nella quale lei non è mai al centro del discorso, ma sempre parte di un movimento più grande; e quindi rendeva difficile l’identificazione per lo spettatore. È stato il produttore Luca Ricciardi (anticipato in parte anche dallo scrittore Lorenzo Pavolini) a suggerire che io entrassi nel film come personaggio per tutta la durata, e non solo all’inizio e alla fine, come avevamo provato originariamente. Quindi con Alessandro Aniballi abbiamo lavorato a un testo che mi facesse diventare un interlocutore di Luciana, naturlamente più fragile e dubbioso di lei, in modo che il mio personaggio suscitasse nello spettatore una maggiore empatia.

Che cosa avete tenuto presente nel criterio di scelta di un materiale d’archivio così vasto e complesso?

La qualità e la bellezza cinematografica coniugata ai temi attraversati dalla Castellina; ma la priorità al montaggio l’abbiamo sempre data ai materiali. I pochi che avevo selezionato e sono poi rimasti fuori dal film non li abbiamo utilizzati solo perché interrompevano il flusso. Come sappiamo in tutte le forme di cinema, finzione o documentario, è essenziale che il film dall’inizio alla fine sappia costruire una sua atmosfera e che la mantenga per tutta la sua durata, e questo è stato il criterio che ci ha guidato nella scelta finale dei brani dei repertori utilizzati, a parità di bellezza.

Ci sono dei passaggi legati agli anni 80 e 90 in cui si avverte una frattura rispetto non solo alla storia interna del PCI ma anche al rapporto tra lo stesso PCI e i cambiamenti sociali che stavano avvenendo nella realtà italiana (in particolare nel mondo giovanile). Come avete scelto di raccontare questi aspetti problematici della storia del partito?

Come tutto il resto: con l’accostamento dei materiali di repertorio. E poi con il mio dialogo a distanza con Luciana, visto che sugli anni ’70 abbiamo idee diverse.

Il film in qualche maniera vuole anche ragionare sulle forme in cui il partito comunista è stato raccontato da una comunità di cineasti militanti in un determinato periodo storico: avendo visionato molto materiale in questo senso, cosa è rimasto anche in te di quel modo di raccontare e di vedere anche la realtà?

È stato bello scoprire che quaranta, cinquanta anni fa Diario di un maestro (Vittorio De Seta, 1973) non era un caso isolato: c’erano diversi registi – i primi che mi vengono in mente sono Ugo Gregoretti, Gianni Serra, Giuseppe Bertolucci – abituati ad attraversare con disinvoltura il confine tra documentario e finzione, a usare la messa in scena nel cinema della realtà, a sfuggire ogni retorica, a usare ironia e autoironia; in grado di traslare la lezione della commedia all’italiana, così come elementi della poetica di Pasolini, nei film militanti; anche in quelli commissionati direttamente dal PCI. E così la propaganda, dissimulata dallo stile, passa in secondo piano.

Che cosa rappresenta secondo te nel film la presenza lucidamente critica di Luciana Castellina nel rapporto tra passato e presente di quella storia?

Luciana Castellina, da marxista formatasi nel dopoguerra, non ha mai uno sguardo nostalgico: è sempre proiettata verso il presente e il futuro, concentrata su quale lavoro politico è necessario organizzare oggi. E quindi, quando racconta con lucidità e precisione il PCI, lungo settanta anni di storia italiana, si può essere d’accordo o no con il suo punto di vista, ma si sente costantemente l’allusione al presente: l’evocazione di problematiche che arrivano fino ai giorni nostri. E il nostro film infatti attraversa temi che sono, purtroppo, tutti attuali: l’emancipazione femminile (qualcuno mi ha detto che questa è una formula obsoleta, ma non ricordo quale sarebbe l’aggiornamento), il problema della cura della salute mentale, l’inadeguatezza dell’istituzione carceraria, la violenza sulle donne, le dipendenze, il rapporto dei partiti di sinistra con i lavoratori, la comunicazione tra i leader e base, la pace… e così via. Ma il nostro sforzo costante è stato quello di avere sempre un tono leggero e ironico, nonostante la serietà e la profondità dei temi che Luciana e la storia del PCI naturalmente portavano. La retorica dei grandi cortei e delle bandiere rosse era sempre dietro l’angolo.

Secondo te nell’odierno immaginario cinematografico c’è ancora spazio per raccontare la rivoluzione?

Ci sono tante forme di rivoluzione, anche interiori: Loach, Kaurismaki, Östlund, Bong Joon-ho, l’ultimo film di Wenders, anche se raccontano movimenti di piccole comunità, o di singoli individui, trasmettono una grande voglia di cambiamenti sociali, o la necessità di una nuova di lotta di classe; che oggi è soprattutto tra popoli ricchi e quelli poveri, ma anche all’interno delle società ricche le disuguaglianze, come sappiamo, sono sempre più feroci.

“E invece andare contromano era meglio…” (rispetto alla svolta della Bolognina): così affermi quasi all’inizio del film. Vuol dire anche che con le immagini d’archivio è possibile tanto decostruire la retorica della grande Storia quanto farne una lettura in contropelo con cui mettere insieme il congresso di partito e la quotidianità fatta di tempo di lavoro e di tempo libero?

Non so se ho capito la domanda; ad ogni modo il senso del “contromano” è quello che il PCI – che forse era inevitabile che si trasformasse – non avrebbe mai dovuto perdere il pensiero critico verso il capitalismo: come sostiene un militante nel film belga che ho utilizzato (“Il fare politica”, Hugues La Paige, 1985/2005), non bisognava liquidare tutto il patrimonio di lotte e di ideali come sbagliato. In un programma televisivo, pochi giorni fa, Rosy Bindi diceva: “Ci siamo illusi che stesse vincendo la democrazia in tutto il mondo, e invece stava vincendo il capitalismo”. Ad ogni modo vedendo i materiali dell’AAMOD sembra che spesso già i registi dell’epoca facessero il “contropelo” alla cultura ufficiale del PCI con i loro film.

Le immagini non d’archivio in alcune sequenze inziali sono state girate a Bagnoli? Si riferiscono alla sua “dismissione”? E in effetti in quel momento tu stai parlando anche di apocalisse…

Le avevo girate nel 2019 a San Giovanni a Teduccio per un cortometraggio di laboratorio con gli studenti di un liceo artistico locale (“Come si scrive ti amo in coreano”) prodotto da Antonella Di Nocera, quindi sono d’archivio anche quelle, seppur recentissimo; ma il senso non cambia: anche lì, come a Bagnoli, delle industrie sono rimaste solo le macerie. Però è importante guardare anche a ciò che è stato fatto di buono: a San Giovanni, recuperando una di quelle aree una volta occupata dalle fabbriche, hanno sviluppato un polo universitario dedicato all’informatica di assoluta eccellenza.

La sequenza che vede l’arrivo in stazione del treno (immagine-mondo del cinema) strapieno di operaie e operai con la tua voce che ricorda il grande “padre PCI”: come nasce questa scelta insieme etica ed estetica?

Quello è il film collettivo sulla grande manifestazione organizzata dalla CGIL contro l’abolizione della scala mobile nel 1984; ci piace che dallo stesso vagone scendano persone con lavori e accenti diversi, come se quel treno avesse raccolto lavoratrici e lavoratori per tutta l’Italia (come in effetti faceva all’epoca il PCI), e il nostro preferito è il ragazzo, probabilmente disoccupato o studente, o tutte e due, che è l’unico che non risponde alla domanda dell’intervistatore “Che lavoro fai?”, rimanendo in silenzio con un sorriso tra il sornione e l’imbarazzato. Ci pensa lui a togliere qualsiasi retorica anche a quella sequenza. Io non sono mai stato iscritto al Partito, lo erano i miei genitori: ho cominciato a leggere Il Manifesto a quattordici anni – nel 1978 – e non ho più smesso. Insomma sono sempre stato affettuosamente critico, infatti andavo volentieri ai festival dell’Unità, e qualche volta nelle sezioni dei miei genitori prima e dei miei amici dopo. Quindi per me il Partito, con tutte le sue rigidità e aspetti obsoleti, era comunque una organizzazione “padre/madre” sulla quale poter sempre contare , e soprattutto l’ho sempre votato: finché è esistito il PCI, e anche dopo; ho smesso solo pochi anni fa di votare i DS.

Nella tua costellazione di riferimento sul cinema militante di quegli anni adoperi filmati di Giannarelli, Pontecorvo, Ferrara, Serra, Grottesi e Matteucci (Zavattini addirittura appare in una sequenza) e Gregoretti, che in “Comunisti quotidiani”, tramite una voce over che immaginiamo in dialogo con la tua, esprime questo pensiero per certi versi struggente: “(il PCI) rappresentava la parte sana del paese, che ci attraversava nel quotidiano, in tutto quello che facevamo, e che ci sembrava non potesse scomparire mai”: perché questo tuo desiderio di realizzare un film con quelle immagini? Hai attraversato processi di rispecchiamento? Hai ripreso il filo di quella profezia (di una scomparsa) per riconfigurare un presente possibile?

È stato un puro caso: ero stato chiamato per un mega progetto sul centenario del PCI da Luca Ricciardi e Simone Isola: avrei dovuto aiutare Luciana Castellina a realizzare un cortometraggio; poi il progetto è saltato, ma io nel frattempo, conosciuta Luciana e fatta una bella immersione nell’archivio dell’AAMOD, ho pensato che tutta quella bellezza andava valorizzata e sono voluto andare avanti lo stesso, e così Luca ha intercettato un bando della Presidenza del Consiglio che ci ha permesso di realizzare il film.

Castellina dice che non c’è libertà senza uguaglianza, senza giustizia, e che essere comunisti, allora come ora, vuol dire proprio questo, provarci ancora: pensi che il cinema e in particolare il cinema che adopera immagini d’archivio possa dare un contributo su questo? D’altronde è anche la prima volta che ascoltiamo la tua voce (in una prima persona che ci risuona allo stesso tempo singolare e plurale) lungo tutto il film…

Speriamo di si!

All’inizio e alla fine, in un filmato, appare anche tua madre, scelta poetica che attraversa molti altri film d’archivio, e forse tra i più belli: che emozione hai avuto nel riscoprire e riguardare tua madre in quel filmato? È un incontro che si rinnova ogni volta a ogni nuova visione? Che si allarga, tramite la natura “relazionale” delle immagini d’archivio e la sollecitazione al dialogo da parte della voce over in prima persona, a intrecciare l’io a noi, il personale al politico, l’eco individuale alla voce collettiva?

Mia madre l’ho trovata quando, durante il confinamento del 2020, cercavo materiali per il mio film precedente (Cipria, 2022); mi servivano dei tram e Claudio Olivieri, archivista dell’AAMOD mi aveva segnalato il film di Gregoretti Dentro Roma (2006); quindi andavo avanti veloce col cursore senza sentire cosa diceva la voce off di Gigi Proietti. Quando ho visto le immagini di Piazza Mancini mi sono incuriosito e ho messo in riproduzione a velocità normale, nel momento in cui il film è arrivato a parlare dei “progressisti dei Parioli” ho pensato “adesso qui pizzico qualcuno che conosco”, ho aguzzato lo sguardo e cinque secondi dopo ecco il primo piano della bella mamma di un mio compagno delle elementari, quando poco dopo sono apparse mia madre e mia zia è stata una grandissima emozione; anche perché mia madre è morta nel 2001 a cinquantanove anni. Ovviamente poi mi sono guardato tutto il film con calma, e due anni dopo l’ho riscalettato per 16 mm.

L’archivio, per te, può leggersi come necessità etica di testimonianza e insieme come estremo tentativo di resistenza contro la scomparsa, contro la morte?

Bè tutta l’arte… la letteratura, la musica, il cinema sono anche un tentativo di noi umani per sopravvivere alla morte, e quando il livello artistico è alto, mi sembra un ottimo tentativo.Detto questo, oggi, che siamo perennemente immersi negli archivi contemporanei della nostre vite e di quelle degli altri, archivi composti da immagini della stessa qualità dei rifiuti di plastica che hanno formato una gigantesca isola nell’Oceano Pacifico, le immagini di repertorio che arrivano dal passato brillano come pietre preziose anche, e soprattutto, agli occhi degli spettatori più giovani.

Che cosa di quel cinema di partito, di quel modo di intendere l’atto di filmare come parte del proprio impegno per il partito, è entrato a far parte del tuo modo di fare cinema? In che modo senti che la “lezione” di Zavattini è presente nei tuoi film?

Nei miei corti “di finzione” (tutti frutto di laboratori condotti insieme allo sceneggiatore Pier Paolo Piciarelli con ragazze e ragazzi delle periferie o pazienti psichiatrici), così come in gran parte dei miei documentari, a maggior ragione in quelli realizzati con Agostino Ferrente, il confine tra osservazione e messa in scena è labile, c’è sempre il tentativo di avere uno sguardo ironico/tenero sui personaggi, e in tutti i miei lavori do voce a chi di solito non trova ascolto: perfino il regista Nico Cirasola, al quale ho dedicato il mio primo documentario non in coregia, a suo modo era un emarginato (ed era un personaggio comico e drammatico assieme). Non è esattamente “un cinema di tutti per tutti”, come teorizzava Zavattini, perché per i miei lavori è veramente difficile raggiungere un pubblico vasto, ma certamente, a costo di sfiorare un cinema naïf, cerco sempre di arrivare a tutti: sto molto attento a non fare “film difficili”.

E oggi, che il partito non c’è, che succede? La comunità come la identifichiamo e, senza la mediazione del partito, in che modo è possibile “dedicarle” il proprio impegno di cineasta?

Nel mio piccolissimo ho sempre cercato di fare un cinema politico che fosse anche d’intrattenimento (perché se il pubblico sbadiglia, come accennavo prima, mi butto dal ponte), ma non sono né un politico né un intellettuale; forse è una domanda più adatta a Nanni Moretti o a Daniele Vicari, che oltre che registi sono anche veri intellettuali, nel senso originario e nobile del termine.

 

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