Da Oppenheimer a Following: Nolan (ir)reversible

Il cinema di Christopher Nolan ha sempre  illuminato le zone meno intellegibili, più remote e sottocutanee dell’interazione  tra il soggetto e la realtà che percepisce e attraversa sensorialmente e mentalmente; il manifestarsi di una dimensione più profonda di quello che appare in superficie, colta nell’istante estemporaneo di una presenza in carne e ossa  come nel tempo dilatato ed esponenziale di un’ossessione psicotica che dura tutta una vita.

Così la storia del suo ultimo film in uscita in questi giorni, quella del fisico statunitense Robert Oppenheimer che ideò e costruì la prima bomba atomica destinata, nel segno della distruzione totale di Hiroshima e Nagasaki e della minaccia di un’apocalisse ancora più grande, a chiudere tragicamente la partita della seconda guerra mondiale, si fa in qualche modo il teorema più emblematico di un’indagine sull’uomo al di là del bene e del male perseguita fin dall’esordio,  dalla forma basica di Following (1998), dove il bisogno di sapere e di controllare l’imprevedibilità dello scorrere degli eventi , in una chiave minimalista ( l’inseguirsi e il manipolarsi tra un aspirante scrittore e un ladro, un piccolo “topo” di appartamenti) già dichiara il conflitto insanabile tra essenza tangibile e immagine espansa , tra (pre)visione onnisciente e limitatezza di un dinamismo che si muove con una direzione nello spazio e nel tempo. Un nucleo contenuto nelle primissime inquadrature di Oppenheimer, con la transizione avvenuta nell’arco di tutta una filmografia dal personaggio senza identità di Following fino alla magniloquenza e al peso di un nome che traduce la frammentazione e il relativismo delle storie anonime di un racconto nel processo di compattezza e universalismo della Storia per un’umanità da par suo sull’orlo di una crisi di nervi : ed è il volto enorme di Cillian Murphy, innervato paesaggio di esaltanti possibilità e labirintici dubbi, a presentarsi da subito come il campo di un controcampo fatto di infinitesimali ed infinite microparticelle che si agitano, si compongono e si decompongono fino ad assumere la forma di un’ idea tradotta nella concretezza di una pratica; la scintilla di un’intuizione così personale, con quei close up cosi stretti sulla faccia visceralmente espressiva, da film muto, di Murphy, da anticipare la fatica e la reticenza nel dipanarsi come esperienza che riguarda e coinvolge una collettività sempre più ampia, in bilico tra la complessità casistica e probabilistica della ragione scientifica e il retorico e semplicistico pragmatismo del sentimento militarista.

Ma, come sempre in Nolan, non può esserci un ordine lineare nel verificarsi e nello scorrere di fenomeni e accadimenti; la memoria , monolite kubrickiano di preludi e anticipazioni, scompone la durata variabile dell’esistenza di ogni personaggio in diversi spazi e luoghi , generando degli slittamenti che si riallineano sempre su un punto di partenza o di arrivo ed evocano il fuori campo del film altro che forse avremmo potuto vedere. Memento (200o), l’opera che ne rivelò e ne consacrò questo modo di procedere,  cominciava appunto dalla conclusione per tornare a ritroso fino all’ incipit , suggerendo l’esistenza di un prima e di un dopo , di due possibili ulteriori film, uno terminato prima di cominciare e l’altro iniziato prima della fine;   come se il racconto fosse imprigionato nel limite della memoria a breve termine del protagonista, con l’ulteriore straniamento di alcuni inserti, apparentemente dei ricordi appartenenti alla  vita coniugale con la moglie (la cui morte è l’avvenimento, l’hitchcockiano Mcguffin, intorno a cui ruota la vicenda) , di cui in verità non possiamo sapere  la precisa collocazione rispetto al passato e al  futuro , proprio perché la narrazione in prima persona appartiene a un memoria mancante e frammentata, della quale la regia di Nolan si fa ulteriore messa in abisso  di un work in de-progress. Da questo punto di vista, Tenet (2020), forse il suo cimento più faticoso e incompreso, appare come una versione gonfiata con gli steroidi di Memento dove il tempo ritorna a prendersi una fagocitante centralità che non riguarda più una faccenda privata ma le sorti di un mondo capovolto e schiacciato dal fardello del futuro, e la scena primaria di una simile congestione non è più un focolare domestico che brucia, ma il macrocosmo di un laboratorio globale in decadenza, un esperimento che ha origine dalla sua distruzione.

Oppenheimer del suo stesso cinema, Nolan ha poi proseguito a elaborare e costruire dei meccanismi o, meglio, delle strutture e architetture fondate su un meccanismo (talvolta soffocando  quella sotterranea  pulsione vitale, densa e fiammeggiante che potrebbe esplodere e mettere a ferro e fuoco la forma del cinema e le forme della materia) di ridefinizione delle coordinate entro cui orientarsi, la zona morta rianimata dagli stimoli di sens(i)(e)azioni, declinate nella compenetrazione di una tensione emotiva e conoscitiva. La cecità etica e morale del poliziotto in sospeso tra delitto e castigo sulle sponde selvagge e vivide dell’Alaska, terra illuminata di giorno e di notte , sulla quale ciò che è ambiguo e omesso diventa intellegibile e trasparente in Insomnia (2002). L’habitat naturale e incontaminato, irriducibile a riflesso di un disturbo nevrotico (l’insonnia, appunto) , al quale si sostituisce l’artefatto e mistificante  palcoscenico /set della struttura più implacabile e inestinguibile, quella che contiene il senso di colpa, la recriminazione, la paura del fallimento e della perdita, la dipendenza dallo sguardo altrui per legittimare la propria esistenza o la propria morte; in The Prestige (2006) il confronto tra i due prestigiatori e illusionisti non può limitarsi più al portare in scena il trucco più strabiliante e a svelarne e rivelarne il funzionamento o la riuscita/non riuscita. Il desiderio di vendetta e di riscatto (che riguarda la competizione ma soprattutto, ancora una volta, una moglie rimasta uccisa per un caso o per un azzardo) travalica la porta chiusa e aperta di una plausibilità e si allunga fino ai luoghi del fantastico, con il doppio corpo di Christian Bale gemello e i molteplici corpi di Hugh Jackman clonato a ergersi memento incarnato di un rimpianto che non muore.

E non è sicuramente un caso che Nolan abbia scelto Batman per la saga di cinecomic che ha deciso di realizzare, come non mai cavaliere oscuro della pagana triade colpa-vendetta- riscatto, celebrata sull’altare spettacolare e multimilionario di un’ impotenza, una privazione, una scelta che continua ad alimentare lo status di una coscienza dilaniata (basti pensare a una scena del secondo capitolo della trilogia nolaniana, con Batman costretto da Joker a decidere se salvare la donna che ama o il procuratore distrettuale). Un dilemma successivamente elevato al quadrato e tele-trasportato nello spazio onirico e in quello ultraterrestre: i meandri dell’inconscio in Inception e dell’universo in Interstellar, con il comune denominatore della preposizione “In” a rimarcare la qualità introspettiva, intima ed interna di viaggi che invece vogliono restituire l’enormità della visione, la prospettiva tridimensionale di pieni scenografici e vuoti ancestrali, la ricerca della propria identità, anche quella proprio corporea, non distrutta e costruita in continuazione da un sognante microcosmo riprodotto non sa più da quale immaginario/memoria (in Inception  l’architrave di questa pensiero è la sequenza reiterata del rendez vous nello strato più profondo del subconscio tra il personaggio di Leonardo Di Caprio e quella di  Marion Cotillard, ancora una moglie morta, dove a un certo punto si mette in discussione se una è la proiezione dell’altro o viceversa, chi è reale e in quale livello di consapevolezza si trova imprigionato o liberato). Mentre in Interstellar  una simile comunicazione avviene su linee parallele che non si incontrano ma si contemplano da una parte all’altra, permettendo a un amore perduto e ritrovato, in questo caso quello di un padre astronauta che ha “scelto” di abbandonare la propria figlia per cercare un pianeta alternativo alla terra in disfacimento dove ripopolare l’umanità, di perforare la membrana spazio-temporale e posarsi come segno decifrabile, risoluzione dell’enigma, chiusura del cerchio.

Dopo tanta fluidità/intensità e dopo essere stati kantianamente tra il cielo stato sopra di noi e la legge morale dentro noi,  la Storia costituita di fatti e conseguenze si pone sotto gli occhi della riflessione lucida e struggente di Nolan. Dunkirk (2017) ne è una sorta di prologo corale, l’orchestrazione di una battaglia per cielo e per mare dove non ci sono quasi parole o spiegazioni, piuttosto la visuale panoramica dell’anti epica di un ritiro, dove nello sguardo di chi è sopravvissuto rimane l’immagine di chi è morto e la spettacolarità è prosciugata e ridotta all’osso, sulla pelle macchiata e l’espressione laconica ed esausta di un soldato volto sparso nella folla e nell’oceano.

In Oppenheimer si ha invece la resa dei conti di quel caos/carnaio che è la guerra, distribuito all’interno di una cornice astratta che trasfigura la concretezza del dato (le stanze e le aule di tribunale, in cui lo scienziato venne indagato per le sue presunte simpatie filocomuniste, che si alterano senza soluzione di continuità e sfociano nel fantasmatico bianco e nero degli anni del maccartismo) anche nelle sue fattezze più concrete e cronachiste (rimane forse il film più parlato e spiegato di Nolan) per giungere all’atto radicale della bomba, l’arma di distruzione di massa, che, nel suono sordo di un istante, concede la pausa per un autoanalisi che è già condanna: “Sono diventato il Dio della morte”, dice Oppenheimer a se stesso,  un attimo prima che la sua invenzione deflagri nell’interezza della sua potenza e della sua possibilità annientanti .

Un rimbombo  che si ripercuote fino all’ultimo dei close up ravvicinati, sulle parole che un amareggiato Eisenstein rivolse ad Oppenheimer quando si incontrarono la prima volta: una considerazione  che ci fa leggere in rewind la filmografia di Nolan e ci fa capire perché è andato a cercare la salvezza in un altro racconto, un altro sogno, un altro mondo.

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