Festa di Roma: Mi fanno male i capelli di Roberta Torre (Concorso – Miglior attrice – Premio “Monica Vitti” ad Alba Rohrwacher)

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Come le impronte lasciate da una passeggiata un po’ smarrita sulla spiaggia, Monica, donna colta nello sfumare di un’adulta giovinezza seppur regredita ad un’ingenuità infantile che assomiglia a una forma di demenza senile, attraversa incerta e precaria l’esistenza sul crinale che separa la realtà dall’immaginazione. È lei la protagonista di Mi fanno male i capelli, presentato nel Concorso “Progressive Cinema” alla Festa del cinema di Roma, con cui Roberta Torre prosegue in parte un discorso cominciato lo scorso anno con Le favolose, ibrido tra documentario e finzione, sul ritorno a casa di un gruppo di amiche transessuali, tra memoria vissuta nella frontale testimonianza delle proprie esperienze e rielaborata dalla vertigine di un auto rappresentazione in perpetuo, anche oltre la morte. Quest’ ultima dimensione acquista una prevalenza ancora più totalizzante nel personaggio di Monica, che oltre tutto in questo caso è già inserito in un racconto totalmente di finzione, e che proprio nella finzione, percepita e restituita nella forma di dinamico e vivente archivio dell’immaginario cinematografico, trova non solo il senso narrativo della propria ragione d’essere, ma anche il taglio di una ferità narcisistica talmente profonda da poter essere suturato solo dai reiterati frammenti di una kermesse filmica: le pellicole in questione,  utilizzate sia nella loro suggestione di materica essenza che nella conversione digitale in grado di permetterne una maggiore manipolazione e interazione, sono il carnet di quel cinema che ha dato centralità alla prospettiva di un nevrosi femminile; le sfaccettature di una più acuta e ricettiva inquietudine sugli strappi della realtà visibile e invisibile, declinata nel segno del dramma, dell’alienazione, della farsa.

Uno, nessuno e centomila volti/ capelli/ costumi appartenenti all’ interprete più sensibile e generosa di questo variegato mood tra jazz e nazional popolare, la Monica Vitti la cui Monica del film della Torre è già un doppio , una proiezione, un attraversamento al di là dello specchio scuro dove la tragicommedia pirandelliana dell’esistenza consiste proprio nell’impossibilità di smettere di guardarci dentro (“Mi fanno male i capelli” è una delle battute chiave pronunciate dal  personaggio di Giuliana ne Il deserto rosso, un dolore fisico che permea endemicamente la visione alterata di ciò che le appare davanti agli occhi) . Interpretata con una tenerezza disarmante  e una stralunata intensità da Alba Rohrwacher, che da l’impressione di riuscire a modificare perfino i suoi tratti somatici, già di partenza abbastanza vicini all’asimmetrica  bellezza della Vitti, questa Monica/Monica rifugge dal mondo intorno a lei che si sta svuotando letteralmente e metaforicamente:  la casa al mare in cui vive è un situazione di necessità provocata dal pesante indebitamento del marito (Filippo Timi) nonché la eco distante, sulle sponde di un invernale e melanconico litorale, di un’ altra casa, quella di Roma, ormai pignorata e perduta. Lo stesso consorte, premuroso e amorevole, sembra più mosso dal senso di colpa per averla esiliata in una condizione di privazione e isolamento, con tanto di strozzini e notai che vengono a  depredare quadri e oggetti (su questa parte rimane, chissà quanto volontariamente, più di qualche dubbio rispetto a chi siano alcuni  personaggi). Parallelamente, in una dicotomia fin troppo speculare , c’è la realtà alternativa di Monica che elimina i confini tra concreto e astratto, tra quello che si può distruggere, perdere e rubare e il tesoretto inestimabile e inesauribile della propria immaginazione.  Ad attivare questo passaggio è il click di play-rewind sul telecomando di un videoregistratore ( strumento di antiquariato/ archivio per eccellenza per quanto riguarda il cinema inteso come supporto fisico: qualcosa che può essere toccato, spostato e di cui possiamo vedere in loop una sequenza nel  riavvolgersi del nastro).

E il film in questione non può che essere La notte, dove Michelangelo Antonioni filma l’irriducibile ambivalenza di una Vitti mercuriale ed evanescente, sensuale e apatica con una precisione, che per paradosso o iperbole si traduce in un margine di mistero e irrisolutezza (in primis di Monica verso se stessa), nel quale Monica/Alba trova lo spazio bianco e nero per teletrasportarsi in una diversa identità.

Ma l’alter ego che si è scelta ha circumnavigato l’ eterogeneo oceano di possibilità, di cambi di registro e di genere del cinema italiano nell’onda lunga degli anni ’50-60-70 ( con un’appendice amara negli anni 80). Cosi Monica comincia a interagire con immagini, rappresentazioni, sguardi che passano dalle distanti eroine antonioniane perse nella figura di un’ascetica eleganza e nello sguardo anticipatore di un disagio ancora da decifrare, all’eccesso di brillantezza tra patetismo e simpatia della commedia all’italiana, dalla struggente bellezza di latin lover decadente di Marcello Mastroianni all’allure di sfrontato guascone tra machismo e infantilismo di Alberto Sordi. Questo permette alla Torre di spaziare rispetto proprio all’utilizzo del materiale d’archivio nel tempo e nella collocazione iconografica (con un ulteriore doppia Vitti: durante le prove dei costumi per Il deserto rosso e più tardi nell’estrosità di mise e cappellini per un’intervista Rai) e di ridefinire, nell’ambito di una pratica  che sta arricchendo il cinema non solo nel recinto del genere documentario, una prospettiva semantica su quei found footage. Uno degli esempi più efficaci è il lavoro su una sequenza dove Alberto Sordi apre la sua grande villa romana  e la mostra alle telecamere.  Il comportamento sornione e divertito dell’attore, che si rotola sull’enorme letto a baldacchino, è in contrappunto con l’aspetto di quella magione tetra e un po’ antica, piena di quadri di valore che per essere conservati hanno bisogno di una fioca e bassa illuminazione che aumenta la sensazione mortifera, da permanente mausoleo, già impressa quando Sordi ancora ci viveva (oltretutto nel vedere uno spazio di tale grandezza abitato da una sola persona).

 

Lo scarto/straniamento è però dato dal modo in cui Monica integra e riposiziona i filmati dentro le  caselle di un immaginario non più statico e acquisito , ma divenuto, per necessità di sopravvivenza , la mappatura in itinere di un minaccioso non sense da una parte  (la donna non capisce chi sono le persone che si aggirano intorno a lei, ma ne avverte l’ostilità/estraneità) e di un’impossibilità di amare senza il filtro di una sovrapposizione e di uno spostamento.

E proprio l’allucinazione audio visiva del suo amico  Alberto che le chiede di tutelare e proteggere la casa, ormai convertita di fatto in museo, porterà  Monica a spingersi  fuori dalla modalità dello schermo ( che nel film si mostra anche  sotto la forma di uno dei quei vecchi specchi scomposti in tre parti), su uno scenario sempre più mentale  di sabbia e di mare che non porta da nessuna parte se non nella luce del buio di una sala cinematografica. Luogo-non luogo fantasmatico e fisico di un immaginario che è stato fuga e che forse ora è catarsi e (necessario) oblio.

In sala dal 20 ottobre


Mi fanno male i capelli –  Regia: Roberta Torre; sceneggiatura: Franco Bernini e Roberta Torre; fotografia: Stefano Salemme; montaggio: Paola Freddi; musica: Shigeru Umebayashi; interpreti: Alba Rohrwacher, Filippo Timi,Nicole De Leo, Elio De Capitani, Alessandro Averone; produzione: Stemal Entertainment, Rai Cinema; origine: Italia, 2023; durata: 83 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

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