“Il Cinema Ritrovato”: La croce di ferro di Sam Packinpah (edizione restaurata)

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Come è stato ricordato in una discussione nell’ambito della sezione “Ritrovati e restaurati” de Il Cinema Ritrovato (Bologna, 24 giugno – 2 luglio 2023), Orson Welles alcuni anni dopo l’uscita de La croce di ferro (Cross of Iron, 1977) inviò un telegramma a Sam Packinpah in cui gli esprimeva elogi sinceri, confidandogli in particolare che non aveva mai visto un film “antibellico” più riuscito del suo dopo All’ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, 1930, regia di Lewis Milestone). Probabilmente non c’è migliore considerazione da cui ripartire per provare a scrivere oggi qualcosa di sensato intorno a questo capolavoro per nulla apprezzato all’epoca in patria, mentre fu destinatario di calorosi gradimenti in tutta Europa (in particolare, ricevuti in terra tedesca).

Il motivo non risiede soltanto nel fatto che Peckinpah, scegliendo di mostrare le esigue “magnifiche sorti” di un plotone dell’esercito della Wehrmacht tedesca alle prese col tentativo di contenere quella che sarebbe poi stata la disfatta della campagna in Russia, presentava al pubblico  un contenuto che alla fine degli ’70 (e quindi all’apogeo dei consensi di massa nei riguardi delle numerose prospettive ideologico-sociali riconducibili a pur complesso arcipelago della rappresentanza politica a sinistra) non poteva non essere accolto se non con ampi favori. Ma anche  per alcuni aspetti tipicamente formali dell’opera che dimostrano tutta l’intenzione del regista (americanissimo, eppure discendente da una famiglia immigrata dalle Isole Frisone) di voler costruire un’opera che fosse “più prossima” possibile al cuore degli eventi narrati, “più dentro” la psicologia dei protagonisti in uniforme, “più calata” in quelle atmosfere cupe che facevano presagire la sconfitta, evitando dunque di realizzare un qualcosa che fosse visto e percepito troppo “da lontano”.

E già in sede di scrittura del film questo proposito si palesa in modo evidente. Infatti, al fine di redigere la sceneggiatura, l’attenzione volge a un testo letterario tedesco, Das geduldige Fleisch (La carne paziente, tradotto in inglese col titolo The Willing Flesh) che lo scrittore Willi Heinrich aveva pubblicato nel 1955 e che narra le vicissitudini del sergente maggiore Steiner (ruolo affidato al grande James Coburn) e del suo battaglione durante le imprese militari tedesche sul fronte orientale tra il 1941 e il 1945. Le scelte stilistiche di Heinrich, una tra tante quella di presentare Steiner come un soldato apparentemente “senza pathos”, si mostrano subito congeniali e funzionali al progetto di Packinpah.

       James Coburn e Maximilian Schell

Ma c’è dell’altro. Il cast – a partire dal co-protagonista Maximilian Schell – è non a caso costituito per la maggior parte da attori di madrelingua tedesca che, pur recitando in inglese, non sbagliano (naturalmente) la pronuncia, ad esempio, dei non pochi cognomi tedeschi che continuamente si ascoltano per tutta la durata del film. Ciò nell’economia della visione, seppur possa sembrare un aspetto marginale, acquista un senso profondissimo all’interno dell’opera presa nel suo complesso e agevola fortemente lo spettatore a sentire in modo credibile gli eventi che scorrono sullo schermo. In un cinema americano in cui gli effetti speciali dell’elettronica e del digitale (che faranno sembrare sempre più vero ciò che per definizione vero non è) erano ancora in una fase, come dire, sperimentale, Packinpah con i suoi collaboratori perfeziona fino ai minimi particolari la sua opera, optando, ad esempio, di girare il film tra l’Italia e la ex Jugoslavia. Ma forse una scelta fra tutte diviene rappresentativa in tal senso. Essa consiste nel modo in cui La croce di ferro si apre. I primi cinque minuti sono a dir poco magnetizzanti, semplicemente indimenticabili e allo stesso tempo esprimono in sintesi tutto il film a venire. Paragonabili, per la forza delle immagini, a un’opera di appena un anno prima: Monsieur Klein (Mr. Klein, 1976, diretto da Joseph Losey). In apertura, mentre scorrono i titoli di testa, si è spettatori di un montaggio di sequenze prese per lo più da documentari dell’epoca che mostrano parate militari, folle oceaniche in estasi alla vista del Führer, scene di guerra divise tra le ormai note atrocità e la “folle gloria del comando”, immagini rubate dalla gioventù del terzo Reich con bandiere sventolanti e sorrisi immaturi come quelle della ritirata del ’43 dai territori russi. Ad accompagnare tutto questo mare magnum interminabile, che oggi potremmo chiamare un blob “da un altro mondo” (?), vi sono le note di una canzone, Hänschen klein, tra le più popolari del periodo  “Biedermeier” (1815-1848), che racconta di un ragazzo che lascia la famiglia per avventurarsi nel mondo lontano da casa per poi farci ritorno dopo sette anni ormai da adulto. A partire dagli inizi del Novecento, questa canzone conobbe una versione ridotta, usualmente insegnata nelle scuole materne; per il film venne adoperato l’adattamento ad opera di Otto Frömmel, autore molto noto di libri per bambini. Si viene immediatamente catapultati come per magia in quel mondo, e rivedendo queste scene iniziali si pensa chissà se Stanley Kubrick, per il finale del suo Full Metal Jacket (di appena dieci anni dopo), non si sia forse ispirato proprio a Peckinpah.

Per andare a concludere, rimandiamo infine a due spunti che ci sembrano interessanti.
1) Nel 1979 fu girato un sequel dal titolo Breakthrough (noto anche come Steiner – Das Eiserne Kreuz, 2 o Sergeant Steiner), diretto Andrew V. McLaglen e con protagonisti Richard Burton, Robert Mitchum, Rod Steiger e ancora Klaus Löwitsch, film stroncato dalla critica data la trama confusa e i dialoghi considerati dozzinali e oggi completamente dimenticato.
2) In effetti, ci fu un vero e proprio Steiner ufficiale dell’esercito tedesco che operò ai massimi gradi durante la Seconda guerra mondiale. Egli si trovò proprio come il protagonista del film a fronteggiare anche le truppe russe sul fronte orientale: il suo nome era Felix Steiner. La sua vicenda storica ha diverse affinità con quella del personaggio interpretato da Coburn, in particolare quella di assumere, verso la fine del conflitto, uno sguardo disincantato e poco incline ormai agli entusiasmi collettivi di quella che sembrava sempre più una Germania che andava in dissolvenza. Infatti, ricevuto nel 1945 l’ordine (direttamente da Hitler) di liberare Berlino dalla presa dei russi con quello che sarebbe dovuto essere il “Distaccamento d’armata Steiner” (Armeeabteilung Steiner), ricusò la disposizione non appena si rese conto che sarebbe stato un’azione a dir poco suicida e che soprattutto non si presentavano i presupposti oggettivi per raggiungere l’obiettivo prestabilito.

Edizione restaurata 2023: proiettata a Bologna, il 27.06.2023, nell’ambito delle giornate de “Il Cinema Ritrovato”.


La croce di ferro (Cross of Iron); Regia: Sam Peckinpah; sceneggiatura: Julius Epstein, James Hamilton, Walter Kelley; fotografia: John Coquillon; montaggio: Michael Ellis, Tony Lawson; musica: Ernest Gold; interpreti: James Coburn, Maximilian Schell, James Mason, David Warner, Senta Berger, Roger Fritz, Igor Galo, Fred Stillkrauth, Arthur Brauss, Klaus Löwitsch, Vadim Glowna, Dieter Schidor, Burkhard Driest, Michael Nowka, Véronique Vendell; produzione: Wolf C. Hartwig per EMI Films, Itc Entertaiment, Rapid Films, DCP. Col.; origine: GB/RFT, 1977; durata: 133.

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