Saint Omer di Alice Diop

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Una decina di anni fa, alla Mostra internazionale del cinema di Pesaro, venne fatta una personale su un giovanissimo regista francese, che poi, nel corso degli anni, ha acquistato sempre maggior peso ed importanza nel panorama del documentario internazionale. Il regista si chiama Jean Gabriel Periot, e aveva presentato, tra gli altri, un bellissimo breve documentario, Eût-elle été criminelle… (Anche se fossero state delle criminali…) che si può vedere anche su Internet nella sua pagina personale. Si tratta di un lavoro su immagini di archivio, immagini che rappresentano la rasatura delle teste ai danni di un gruppo di donne francesi collaborazioniste dei nazisti, al termine della seconda guerra mondiale. Una pratica barbara che, il Partito Comunista francese fece interrompere immediatamente. Immagini che poi Periot riproporrà, usandole in un contesto diverso, nel suo finora ultimo film del 2021 Retour à Reims (Fragments), tratto da un libro di Didier Eribon.

Queste stesse immagini, accompagnate da un testo tratto dalla sceneggiatura di Hiroshima Mon Amour di Marguerite Duras, costituiscono il prologo di Saint Omer, film diretto dalla regista e documentarista francese Alice Diop qui alla sua prima esperienza nella fiction. In Concorso alla scorsa Mostra di Venezia questo meraviglioso film ha vinto il Gran Premio della Giuria e il Leone del Futuro Opera Prima Luigi de Laurentiis.

Il film, prende spunto da una storia vera, e narra di un processo ai danni di una donna (nella finzione il suo nome è Laurence Coly interpretata da Guslagie Malanda) accusata di aver ucciso la bambina di 15 mesi, lasciandola deliberatamente in balia delle maree e delle onde su una spiaggia nel Nord della Francia. Studentessa di filosofia, nata in Senegal ma poi entrata in Francia per allontanarsi dai suoi genitori, abbandona gli studi, trova e perde lavori e sostegni, si fidanza con un uomo molto più anziano di lei, non esce più di casa, rimane incinta tenendo nascosta la gravidanza e poi, dopo la nascita della bambina, inspiegabilmente un giorno prende il treno per andare in un albergo in riva al mare assieme a questa bambina abbandonandola in balia del mare.

Arrestata viene processata e alla domanda “si dichiara colpevole o innocente” la donna si dichiara innocente, perché è convinta che a causare la morte della sua bambina non siano state le sue azioni, ma il contesto sociale nel quale vive e soprattutto il malocchio della quale è vittima.

La giuria (tutta composta da persone di pelle bianca), i giudici, gli avvocati, il pubblico e anche la gente che manifesta per strada (anche loro tutti di pelle bianca) rimarcano una distanza culturale e una incapacità di guardare un disagio ed una sensibilità diversa.

Il Pubblico Ministero considera la donna colpevole condannandola come i cittadini francesi condannavano donne che erano state amiche dei nazisti, in base cioè ad semplice giusto pregiudizio (“il nazismo è il male assoluto”, da un lato, “l’infanticidio è il peggiore dei crimini” dall’altro); il giudice donna cerca di portare alla luce la vita di questa donna, ricostruendo un percorso di vita che la ha portata a diventare da brillante studentessa a donna nascosta incapace di farsi vedere da nessuno, incapace di mostrare anche la propria maternità, con al suo fianco soltanto un uomo codardo e molto più vecchio di lei che per il quieto vivere si rifiutava di farla conoscere alla sua famiglia, ed una madre che risiede ancora in Senegal, anche lei incapace di guardare, preoccupata solo che la figlia apparisse ben educata e colta.

Laurence si nascondeva mentre nessuno la cercava. Oggi tutti i giornali le hanno puntato addosso i riflettori e la sbattono sulle prime pagine dei giornali. E anche la macchina da presa la riprende sola, immobile, in piedi, dietro lo scranno degli imputati. Ci si domanda se è possibile credere alla stregoneria, si discute di cultura (paragonando la nostra cultura alla cultura africana), si parla di chimere, il fenomeno biologico per il quale anche le donne incinta vengono “contaminate” dal DNA del figlio che portano in grembo, ricevendo in cambio della vita che le madri offrono, cellule che non le abbandoneranno mai.

Le ragioni del Male, quindi, spesso inesplicabili e all’apparenza assurde. Ma così tanto inesplicabili che la coprotagonista del film   – una scrittrice di nome Rama (Kayije Kagame), alter ego della regista, incinta e con un rapporto conflittuale con sua madre – decide di farci un libro, immaginando una relazione tra questo fatto di cronaca e il mito di Medea, la donna che uccide i suoi figli per vendetta oppure per richiedere il perdono.

Kayije Kagame

La madre assassina non sappiamo se ha ucciso i figli per vendicarsi del mondo, per continuare a nascondersi, oppure per essere sicura di poterla portare per sempre dentro di se. Alice Diop lascia la porta aperta a tutte le risposte. Quello che dice è però che la realtà, della quale si è nutrita nei suoi precedenti film, ha mille sfaccettature, e non basta vedere le cose per poterle capire. Serve l’arte, servono le parole della Duras o la rielaborazione del Mito per poter dare un senso a ciò che guardiamo. E servono film come questo per poterci permettere di allargare i nostri orizzonti di pensiero.

In sala dal 8 dicembre


Saint Omer – Regia: Alice Diop; sceneggiatura: Alice Diop, Amrita David, Marie NDiaye; Fotografia: Claire Mathon; Montaggio: Amrita David; Scenografia: Anna Le Mouel; Costumi: Annie Melza Tiburce; Suono: Dana Farzanehpour, Josefina Rodriguez, Lucile Demarquet, Emmanuel Croset; Interpreti: Kayije Kagame, Guslagie Malanda, Valérie Dréville, Aurélia Petit; produzione: Srab Films (Toufik Ayadi, Christophe Barral), Arte France Cinéma, Pictanovo Hauts-de-France; origine: Francia, 2022; durata: 123’; distribuzione: Medusa.

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