Shahid di Narges Kalhor (Festival di Berlino – Forum)

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Shahid è una parodia divertente, che usando la tecnica della metafinzione ci avvicina a temi complessi, quali la storia dell’Iran, l’esilio e l’emigrazione, evitando volutamente l’uso di un registro drammatico. Allo stesso tempo, realizzando il film, la regista Narges Kalhor utilizza il cinema, in quanto forma artistica, come rito catartico per liberarsi dalle ombre del suo passato.

Narges Shahid Kalhor, video artista e regista tedesca di origini iraniane ha deciso di cambiare il suo nome: il termine shahid, ossia martire in persiano, la ossessiona.

La scena d’inizio racconta, appunto, l’ossessione di Narges resa in immagini poetiche con la tecnica slow motion: danzatori vestiti in tunica nera compaiono non solo nei suoi sogni, ma la circondano e la seguono passo passo pure quando esce da casa. Sono l’incarnazione dei martiri eroi, coloro che nel nome dei suoi avi la perseguitano ovunque vada, addirittura, fino agli uffici del comune, dove la regista è intenzionata a inoltrare la domanda. A questo punto una lunga lista a lettere cubitali viene digitata sullo schermo: sono i certificati necessari per l’avvio dell’iter burocratico.

Ovviamente, e come c’era da immaginarsi in questi casi, la mancata presentazione di un certificato ferma tutta la procedura. In questo caso la dichiarazione di un esperto che attesti lo stress psicologico subito a causa del nome.

Anche le riprese del film si bloccano. La troupe compare nella scena e si prende un momento di tempo per riflettere su come proseguire e aggiornare la sceneggiatura.

Il film ricomincia da capo, e Narges – o meglio, l’attrice che interpreta la sua parte – esce di nuovo da casa circondata dai suoi shahid. Insomma, la sequenza di partenza diventa una specie di leitmotiv del film, e sarà più volte ripresa, ma sempre arricchita di nuovi e divertenti dettagli: se nella prima ripresa Narges andava in bici e bucava la gomma della ruota, ora lei cammina e un suo avo martire la segue portando la bici in spalla.

Pur lentamente il film prosegue. Narges si rivolge ad uno psicologo, tale von Ribbentrop, che la prende in terapia. A questo punto un attore-teatrante, seduto davanti un grande quadro dipinto a miniature, racconta la storia della famiglia Shahid Kalhor. Alla reazione piuttosto scettica del terapista viene raccontata anche quella, non meno imbarazzante, della famiglia di industriali nazisti dei von Ribbentrop.

Ulteriori dettagli sulla famiglia di Narges, come la parentela con l’ex presidente iraniano Ahmadinehjad, vengono portati a galla da alcune comparse e contribuiscono a complicare la realizzazione dell’opera filmica. La crisi di coscienza della regista, che all’improvviso si viene a confrontare con la sua posizione di privilegiata (grazie al suo cognome ha ottenuto il diritto d’asilo in soli tre mesi) rispetto ad altri profughi, è così profonda che l’impasse è totale. La troupe e gli attori si scambiano opinioni e cercano una via d’uscita. A questo si va ad aggiunge la scoperta che tutto il film si basa su un errore iniziale: Narges ha ereditato il cognome da parte di madre e non di padre. È quindi tutto sbagliato.

Non le resta che prendere in mano un vecchio moschetto, con cui sparare sul suo passato e, almeno così simbolicamente, ucciderlo per sempre. E magari insieme a questo uccidere anche il film. Che sia questo il finale? Di certo c’è che il nome Shahid scompare dai titoli di coda…

Giocando tra realtà e finzione, teatro, film e musical Shahid  è un film piacevole da guardare, nonostante la complessità dei temi e della realizzazione e che, senza cadere nel didascalico, offre molti spunti di riflessione. Inoltre, servendosi dell’autoironia, indaga le ombre della storia nascoste, molto spesso, dietro un semplice nome.


Shahid – Regia: Narges Kalhor , sceneggiatura: Narges Kalhor, Aydn Alinejad; fotografia: Felix Pflieger; montaggio: Frank Müller, Narges Kalhor; musica: Marja Burchard; animazione: Frank Patzke, Kevin Fuchs; interpreti: Baharak Abdolifard, Nima Nazarinia, Narges Kalhor, Thomas Sprekelsen, Carine Huber; produzione: Michael Kalb Filmproduktion, ZDF; origine: Germania, 2024; durata: 84 minuti.

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