Tre piani

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I morettiani della prima ora – quorum ego – hanno dovuto ormai da diversi anni prendere commiato dal Nanni Moretti prima maniera. Il punto di svolta fu esattamente vent’anni fa con La stanza del figlio che nel 2001 vinse la Palma d’Oro a Cannes e che però, nella tragicità dell’evento, presentava ancora qualche momento di straniamento, qualche venatura comica o almeno leggera, fra tutti la famiglia che spensierata canta in macchina Insieme a te non ci sto più.

La vena tragica e quella comica, la prima più incline a una drammaturgia tradizionale o diciamolo pure “borghese”, l’altra più rispondente a un ritmo sincopato e straniato, quel ritmo che spesso dava alle singole sequenze uno spessore paradossalmente gnomico (pensiamo a tutte le celeberrime scene che si chiudevano con una delle tante battute che ciascun morettiano ricorda) – la vena tragica e quella comica, dicevamo, hanno tuttavia continuato a coesistere produttivamente all’interno di film successivi, film che nella nostra personale playlist non sono fra i migliori di Moretti, ovvero ne Il caimano (2006, https://www.closeup-archivio.it/il-caimano) e in Habemus papam (2011, https://www.closeup-archivio.it/habemus-papam).

Quando invece, mantenendo fede a un ritmo che ormai prevede da quasi trent’anni un film di finzione all’incirca ogni cinque anni, nel 2015 Moretti scrisse e diresse Mia madre (https://www.closeup-archivio.it/mia-madre-l-angolo-del-prof)si capì che vuoi la maturità, vuoi il cambiamento, vuoi l’invecchiamento, vuoi una strisciante depressione, il regista si era di fatto trasformato in qualcosa di davvero totalmente altro rispetto alle opere che vanno da Io sono un autarchico (1976) ad Aprile (1998), ovvero otto film in tutto.

In questo Moretti è davvero un caso strano rispetto al cinema d’autore internazionale ma anche italiano. Se prendiamo, giusto per fare un confronto, il caso di due cineasti importanti del cinema d’autore italiano come Mario Martone, di sei anni più giovane di Moretti e come Marco Bellocchio, di quattordici anni più vecchio, registi di due film fondamentali di questo 2021, ovvero Qui rido io (https://close-up.info/?s=Qui+rido+io) e Marx può aspettare (https://close-up.info/?s=Marx+pu%C3%B2+aspettare)non si possono non notare elementi di straordinaria continuità nei loro prodotti più recenti rispetto alla filmografia pregressa. Nel caso di Moretti, c’è poco da fare, questa continuità si fa fatica a trovarla.

Forse ormai, verrebbe da dire, è rimasta solo Roma come elemento di continuità rispetto al passato, oltreché, in parte, il Moretti attore, anche se mai come in Tre piani il Moretti attore è diverso dai tanti Moretti che siamo abituati a conoscere e, bisogna purtroppo aggiungere, rispetto al fior fiore di attori e attrici italiani (Margherita Buy, Alba Rohrwacher, Riccardo Scamarcio, Tommaso Ragno, giusto per citare i più bravi, ma in ruoli minori anche Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi e Stefano Dionisi), le sue scarsissime capacità attoriali che ancora ancora potevano andare, anzi erano parte consustanziale della vecchia maniera, adesso stonano proprio.

A rimarcare uno stacco ancor più marcato e per certi aspetti incredibile rispetto al passato, il regista romano, giunto al suo tredicesimo lungometraggio, compie un’azione fin qui inedita e inaudita, ovvero traspone un testo letterario che deliberatamente abbiamo deciso di non leggere proprio per non cadere nel tranello di misurare la qualità di questo film anche sulla base della sua presunta fedeltà all’originale. E anche l’uso della musica, malgrado Franco Piersanti, è totalmente cambiato rispetto al passato.

La metafora, anzi ad esser più precisi l’allegoria di questo film è quella di una casa, di un casamento borghese, che struttura nel suo poliprospettivismo, nel suo policentrismo il testo quadripartito.

Famiglia uno: padre giudice Vittorio (Nanni Moretti), madre Dora pure giurista (Margherita Buy), Andrea figlio scapestrato (Alessandro Sperduti) che esordisce nella primissima scena del film uccidendo una passante alla guida di una macchina di notte con un tasso alcolemico eccessivo. Non da ora, la famiglia è a pezzi, il padre, severo e austero, disprezza profondamente il figlio, il quale a sua volta detesta, odia il padre, la madre, accorata, cerca inutilmente di mediare, fin quando il marito la pone di fronte a uno spiacevolissimo aut aut che, solo in parte, si risolverà in una fase successiva del film.

Famiglia due: il padre Lucio è architetto (Riccardo Scamarcio), la madre Sara (Elena Lietti) forse anche, ma non si capisce, la figlia che all’inizio del film ha sette anni, viene lasciata per qualche tempo con il vicino di casa, un uomo anziano e affettuoso (capostipite della famiglia tre) interpretato da Paolo Graziosi, ma sulla strada verso la demenza senile o comunque una progressiva degenerazione neurologica. A un certo punto il vecchio e la bambina escono di casa, e tutti temono, fin quando i due non vengono ritrovati, che sia successo chissà cosa. Lucio, ancora dieci anni dopo, non avrà smesso di interrogarsi.

Questo episodio scatena un aperto conflitto fra la famiglia due e la famiglia tre, a cui sono da ricondursi almeno almeno altri due personaggi: la nonna (Anna Bonaiuto) e la nipote, residente a Parigi, Charlotte (Denise Tartucci), segretamente ma neanche troppo innamorata di Scamarcio. Ma non riveliamo altro.

Resta da menzionare la famiglia quattro: proprio mentre Andrea uccide la passante, nella primissima scena, in strada c’è Monica (Alba Rohrwacher) diretta tutta sola con il trolley in ospedale a partorire. Monica è sola perché il marito Giorgio (Adriano Giannini) non c’è quasi mai, lavorando in una piattaforma petrolifera. E questa solitudine, che si rivelerà essere il suo stato dominante, a Monica non fa per nulla bene, con delle conseguenze che non racconteremo, come non racconteremo della figura di Roberto, il cognato, il fratello di Giorgio, interpretato da Stefano Dionisi. E un ultimo personaggio importante che nel casamento non abita sarà quello di Luigi, interpretato dal sempre eccellente Tommaso Ragno. Dodici personaggi insomma, alcuni dei quali, non solo i famigliari, fra loro drammaticamente intrecciati.

Il messaggio del film è tutto sommato chiaro e prevedibile fin dalle primissime sequenze del film: straziata da paura e risentimento, la famiglia borghese, mononucleare e ancora fondamentalmente maschilista, è totalmente a pezzi, l’amore (figuriamoci il sesso!) fra le coppie, se mai è esistito, non esiste più, anche perché il rapporto con i figli condiziona pesantemente le relazioni che finiscono per essere costantemente triangolate attraverso i figli.

A fronte di questo sfacelo anche le tre possibili soluzioni utopiche proposte da Moretti e dalle sue due sceneggiatrici (Federica Pontremoli e Valia Santella) risultano, dispiace dirlo, alquanto posticce, tutte collocate verso la fine: la comunità solidale gestita da Luigi insieme ai migranti, la famiglia alternativa nel casale sperduto che un po’ ricorda il “pecorino zen” di Verso sera  di Francesca Archibugi, e anche i ballerini di tango in strada, che finalmente fanno uscire di casa tutti i personaggi prigionieri del proprio solipsismo claustrofobico, forse l’unica sequenza di Tre piani che fa tornare alla mente il vecchio Moretti che, non lo neghiamo, preferiamo alquanto al Moretti vecchio.

In sala dal 23 settembre


Cast & Credits

Tre pianiRegia: Nanni Moretti; sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Clelio Benevento; interpreti: Nanni Moretti (Vittorio), Margherita Buy (Dora), Alessandro Sperduti (Andrea), Alba Rohrwacher (Monica), Adriano Giannini (Giorgio), Paolo Graziosi (Renato), Anna Bonaiuto (Giovanna), Denise Tantucci (Charlotte), Riccardo Scamarcio (Lucio), Elena Lietti (Sara), Tommaso Ragno (Luigi), Stefano Dionisi (Roberto); produzione: Fandango, Sacher Film, Raiuno; origine: 2021, Italia; durata: 119′.

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