Petites- la vita che vorrei…per te di Julie Lerat-Gersant

Tra i racconti di formazione per i quali il cinema francese ha una particolare sensibilità ed attenzione, grazie anche alla prospettiva aperta su un paesaggio urbano espanso in numerose province e periferie, quello che riguarda le ragazze madri presenta le maggiori insidie dal punto di vista etico e narrativo. Il rischio di cadere in una prospettiva moralista o edificante, di non restituire la complessità e la problematicità di una condizione che tocca tante corde: una scelta per la vita  in un’ età nella quale spesso la sessualità è ancora percepita come scoperta e gioco, e il brusco, precoce ingresso in una realtà adulta, senza magari gli strumenti ( esistenziali, culturali, sociali) per poterne sostenere il peso e le responsabilità. Parte da questa osservazione quasi fenomenologica Petites -la vita che vorrei…per te (soprassediamo sul sottotitolo italiano che dà già una ricattatoria connotazione affettiva e banalizza un processo ben più irto e spinoso), l’opera prima di Julie Lerat-Gersant, che dimostra un sentimento di conoscenza ed empatia verso i centri di accoglienza destinati non solo alle giovani nel momento in cui stanno per partorire , ma anche dopo il parto e nei primi mesi di vita dei bambini, potendo anche decidere se tenere i propri figli  oppure darli in adozione .

L’incipit, prima di giungere a questo approdo, è però radicato in un tessuto umano di emarginazione e disfunzionalità: le prime immagini ci mostrano infatti un’adolescente accompagnata in ospedale dall’ancor giovanissima madre per l’indotto tentativo di un aborto fuori dai limiti temporali consentiti ufficialmente dalla legge. La ragazzina si chiama Camille e porta i segni della trascuratezza e del disincanto impressi da quella sbandata genitrice , che è stata a sua volta una ragazza madre, capace di amarla solo con la rabbia di un ‘istintiva possessività e incapace di prendersi cura di lei e di quella inaspettata gravidanza;  un avvenimento, per citare il titolo del famoso libro autobiografico L’evenement  (2000, L’evento, L’orma, 2019) sullo stesso argomento di Annie Ernaux, visto in un’ ottica tesa esclusivamente alla sopravvivenza giorno per giorno, e dunque da eliminare, allontanare, rimuovere in quanto fardello tra le maglie strettissime di un territorio fatto di scelte sbagliate e reiterate, inchiodato ad uno stigma di miseria e disperazione  auto introiettato. La storia di Camille è così certamente emblematica di un’emancipazione, un riscatto, un distacco rispetto ad un’esasperazione emotiva, con i pieni e i vuoti di un troppo vicino o troppo lontano, alla ricerca di una lucidità di giudizio e di sguardo.

Gli stessi non luoghi degli anonimi quartieri densamente popolati da palazzi caserma e da parchi abbandonati tra desolanti e isolate colate di cemento e glabre lande di residuale campagna vengono sostituiti da un’alternativa di possibile comunità: la casa famiglia nella quale Camille viene mandata a terminare il periodo della gestazione diventa nel corso di un periodo di tempo prescritto (la dinamica limite/possibilità è una delle questioni centrali del film)  quel microcosmo di relazioni solidali che le era mancato. Fin qui Lerat-Gersant porta avanti una narrazione in linea con un certo realismo da impronta quasi documentaristica, virato in una direzione un po’ sociologica e un po’  psicologica, di alcune produzioni belga e francesi (L’amore secondo Dalva di Emmanuelle Nicot, 2022, viene subito in mente, anche perché tra gli esempi più recenti di questa approccio). Ovviamente siamo lontani dallo scavo che i Dardenne imprimono sulla realtà per far emergere in nuce l’autenticità di ogni gesto, volto e afasico suono dei loro personaggi appartenenti a un nuovo umanesimo non più riducibile alla neocapitalistica dicotomica tra vinti e perdenti. La parabola di Camille contiene in sé quel tanto di esemplificativo e di dimostrativo che alla fine riporta ogni elemento sui binari di una prevedibilità e di un’ineluttabilità. La sua presa di coscienza sul fatto che il bene di un figlio non coincide con la morbosità e l’ottusità di un amore egoistico, ma nell’offrigli un orizzonte ricco di prospettive e opportunità è pedantemente sottolineata nel ripetersi di varie sequenze: il tentato riavvicinamento di Camille alla madre, che è rimasta però scapestrata come all’inizio solo per confermare la tesi che non tutte le donne sono portate ad essere le madri; gli scontri con la passività e l’indifferenza delle istituzioni da parte di un’ appassionata e concreta educatrice anima e corpo ( nella quale ritroviamo il volto invecchiato ma riconoscibile nella sua scomposta, brusca e carnale bellezza della Romane Bohringer di Notti selvagge di Cyril Collard) sulla necessità di intervenire nei confronti di un’altra ragazza madre che ha confermato la sua immaturità nell’occuparsi della propria “petite”; la stessa lettera, che gli assistenti sociali invitano Camille a scrivere  immaginando di parlare alla figlia data in affidamento, appare come la messa a tesi di una programmatica risoluzione. C’è poco spazio per implosioni, ripensamenti, contraddizioni e anche se ci sono devono poi avere necessariamente una loro catarsi, e risolversi in uno scioglimento  del nodo cruciale (quando nella vita non è sempre così, o almeno non lo è in questi termini cosi lineari di causa-effetto, e un cinema che si voglia confrontare con la sua rappresentazione forse dovrebbe porsi il problema di imbrigliarla in una visione precostituita).

Questo sentore un po’ ideologico lascia anche il timore che il film prenda una posizione discutibile sull’interruzione di gravidanza (presentata come impraticabile estrema ratio e non come scelta seppur sofferta), ma qui il confine rimane abbastanza saldo sul punto di una maternità responsabile e di cosa questo significhi nel solco di una pratica (la Bohringer si esprime anche in un qualunquistico attacco contro l’immobilità e l’inattivismo  di colleghi e responsabili, dell’immanente prevalenza del fare contro le chiacchiere). Le sequenze più belle rimangono quelle degli incontri e delle conversazioni amorose tra Camille e il tenero ragazzino /fidanzato/ padre perennemente in bicicletta ( mentre lei sfoga la sua rabbia giovane, mano a mano sempre più smussata, pattinando di notte) che possiedono quel margine spostato in avanti di un’indeterminatezza , di un desiderio che può prendere ancora la forma di un’incoscienza e di una leggerezza ( i petites del titolo sono i bambini nascituri, ma anche le piccole mamme).

Magari sarebbe servito un contatto più diretto con le viscere, quelle dalle quali la protagonista de La scelta di Anne- L’evenement (versione cinematografica 2021 del citato romanzo della Ernaux) espelleva nel sangue e nel dolore  il proprio feto, pagando con la clandestinità e il rischio della vita una scelta diversa in un’epoca, la Francia degli anni ’60, in cui per le donne non era possibile nessuna scelta: la vita che vorrei… per me stessa.

In sala dal 26 ottobre


Petites: Regia: Julie Lerat-Gersant; sceneggiatura: Julie Lerat-Gersant, Francois Roy; fotografia: Virginie Saint-Martin; montaggio: Mathilde Van de Moortel; interpreti: Pili Groyne, Romane Bohringer, Victoire Du Bois, Lucie Charles-Alfred, Suzanne Roy-Lerat; produzione: Escazal Films; origine: Francia, 2022; durata: 90′; distribuzione: Wanted Cinema.

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