Siccità di Paolo Virzì

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Giunto al quindicesimo lungometraggio nell’arco di ventotto anni (l’ultimo, il nient’affatto memorabile Notti magiche, risaliva a quattro anni fa), Paolo Virzì che di anni ne ha cinquantotto, ha tentato con Siccità (presentato Fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e ora in sala) un’operazione estremamente ambiziosa e rischiosa – ma l’azzardo non gli è riuscito. Proveremo nelle righe seguenti a dire in che cosa è consistito l’azzardo e perché giudichiamo il risultato finale del tutto insoddisfacente.

Nei 14 film precedenti, seppur con esiti alterni, Virzì ha mantenuto una sostanziale linea di coerenza con una tradizione che, semplificando, potremmo definire quella della commedia all’italiana, una commedia all’italiana declinata in una chiave socio-psicologica sempre molto credibile, credibile perché robustamente radicata in un realismo di fondo, non senza venature autobiografiche, e oltretutto sostanziata da una conoscenza diretta sul campo – e mi riferisco, ovviamente, in primis ai sei film ambientati in Toscana: La bella vita (1994), Ovosodo (1997), Baci e abbracci (1999), N (Io e Napoleone) (2006), La prima cosa bella (2014) e La pazza gioia (2016) – non priva di toni malinconico-sentimentali con qualche non frequentissimo momento in cui il regista si è anche lasciato andare a episodi grotteschi.

Poi ci sono i film in cui Virzì gioca, per così dire, fuori casa (anche se stiamo pur sempre parlando di un autore che dal 1985 vive a Roma, come raccontava ancora ieri in occasione di una anteprima a Firenze), ovvero prima di tutto i film romano/laziali: da Caterina va in città (2003) a Tutta la vita davanti (2008) da Ferie d’agosto(1996) a Tutti i santi giorni (2012) fino al già menzionato Notti Magiche (2018). Qui, pur muovendosi in un terreno – per sua stessa ammissione – alquanto scivoloso (anche questo lo diceva ieri: quanti film girati a Roma, come ottenere un minimo di autenticità e di originalità filmando una città in cui ogni angolo sembra che già sia stato ripreso), Virzì è sempre, più o meno, riuscito a salvarsi radicando le proprie vicende in un grappolo di personaggi tutto sommato piuttosto limitato, cioè, se così si può dire, trasferendo le dinamiche psicologiche, sociali che gli interessano (tema principale: la difficoltà quando non impossibilità di trascendere la propria provenienza sociale, ovvero: in Italia un vero ascensore sociale non esiste) anche nella grande città tentacolare, meravigliosa e terribile a un tempo.

E poi ci sono i film, non molti per la verità, da My Name is Tanino (2002) a Il capitale umano(2014) fino all’unico film tutto non ambientato in Italia e non in italiano ovvero Ella & John (2017), in cui  ha proprio mollato gli ormeggi; con l’eccezione del Capitale umano, in cui la traslazione dal Connecticut in cui era ambientato il romanzo di Stephen Amidon alla Brianza era tutto sommato parsa ben riuscita, non si può dire che l’ambientazione degli altri due film negli USA da parte di un regista, a mio avviso, nobilmente provinciale, gli sia stata di grande giovamento.

È da questa lunga premessa che conviene partire per venire a parlare di Siccità. Che è un film, come si sa, tutto ambientato a Roma, pienamente metropolitano, dove si respira la pesante aria del tempo in cui l’opera è stata concepita, l’epoca della pandemia che qui ha lasciato visibili tracce trasformando la città in un livido scenario color ocra battuto da un sole spietato, in cui le persone sembrano attendere da un momento all’altro la fine del mondo. Le cui prime avvisaglie saranno la sospensione dell’erogazione dell’acqua da parte del Comune, che è ormai è alle porte, dopo che è trascorso più di un anno dall’ultima pioggia.

In questo scenario (anche) sul piano visivo clamorosamente monotono, Virzì squaderna, con ampio dispiego di uomini (e donne: sceneggiatura di Francesco Piccolo, Paolo Giordano, Francesca Archibugi e dello stesso Virzì) e di mezzi e di altissime professionalità (Luca Bigazzi, Jacopo Quadri, Franco Piersanti, più camei di Massimo Popolizio e di Federico Maria Sardelli, vale a dire il top dell’attore teatrale, il top della musica barocca), un film policentrico, il cui principale punto di riferimento compare, in modo quasi parentetico, allorché uno dei protagonisti, un influencer mezzo fallito, interpretato dall’eccellente Tommaso Ragno (il più bravo di tutti), in una delle sue molte esternazioni via social cita Raymond Carver, seppur soltanto una poesia di Carver, leggermente virata verso il kitsch.

Valerio Mastandrea @ Greta De Lazzaris

Insomma Paolo Virzì ha cercato di fare o di rifare Short Cuts di Robert Altman mettendo insieme una quindicina di personaggi, i cui destini sono oltremodo segnati ben prima che la siccità (e la pandemia da essa derivante) giunga a marchiare ulteriormente le loro vite. Fra i personaggi più presenti: un tassista separato e visionario, interpretato dal fido Valerio Mastandrea, che interpreta sempre più spesso Mastandrea (è il grande vizio del cinema italiano degli ultimi anni, la stessa cosa vale per Favino, per Scamarcio, etc.), un recluso di Rebibbia (interpretato da Silvio Orlando, ipercinetico e patetico), Monica Bellucci che praticamente interpreta se stessa, una coppia alto-borghese depressa (Vinicio Marchioni, avvocato e Claudia Pandolfi, medico), il già citato influencer di Tommaso Ragno, alcuni adolescenti, il migrante di turno, qualche esponente della classe proletaria a rischio delinquenza, gli straricchi che sfruttano la siccità per arricchirsi ancor di più, musicisti gay, ma in segreto. Insomma: un caleidoscopio politically correct che vuol documentare un numero più alto e vario possibile di classi e categorie, in linea con i film poliprospettici summenzionati.

Tommaso Ragno

L’azzardo di cui si diceva all’inizio è proprio questo ovvero il tentativo non riuscito di allargare l’orizzonte a un numero troppo esteso di personaggi, laddove Virzì solitamente predilige un gruppo ridotto, con una decisa concentrazione sul nucleo familiare (anche quando, come in Ferie d’agosto, il cast era cospicuo, il regista si muoveva comunque all’interno di una costellazione familiare, oltretutto fortemente connotata in senso comico). In secondo luogo, forse per la prima volta, si mira molto in alto, alle Grandi Questioni, qualcosa come il Futuro dell’Umanità e secondo me questa dimensione storico-contemporanea che traligna nel sovrastorico e nel metafisico non è nelle corde del nostro autore. In terzo luogo è la totale assenza di comicità e di ironia – fatti salvi forse un paio di personaggi un po’ ridotti a macchiette, tipo il virologo veneto – che fa di questo film un’opera pesante e seriosa, a cui Virzì non ci aveva abituato. In quarto luogo è impossibile non paragonare SiccitàLa grande bellezza: il Tevere, qui completamente in secca, le terrazze glamour, il Papa, a un certo punto invece che la Santa direttamente Giuseppe e Maria sull’asinello, più in generale la compresenza di iperrealismo e surrealismo. Ma il paragone, bisogna pur dirlo, va del tutto a svantaggio del regista livornese, sia sul piano della scrittura che su quello dello stile. In quinto luogo: la polemica sull’invasività dei media (scandalismo giornalistico, i social) rende il film datato, scontato già al momento della sua uscita.

A conclusione della sua presentazione fiorentina, Virzì ha raccontato che il film era pronto da un anno e che molto ha sofferto la pandemia, anche proprio nella sua esecuzione pratica. Questa sofferenza nel film, questo faticoso corpo a corpo, quest’incapacità di togliere, di scegliere nel film si sente. Il regista ha concluso dicendo che presto tornerà a girare in Toscana e non credo fosse un omaggio alla platea. Sono certo che presto avremo l’occasione di ritrovare il vecchio e migliore Virzì.

In sala dal 29 settembre


Siccità – Regia: Paolo Virzì; sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Francesco Piccolo, Paolo Giordano; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Jacopo Quadri; interpreti: Silvio Orlando (Antonio), Valerio Mastandrea (Loris), Elena Lietti (Mila), Tommaso Ragno (Alfredo), Claudia Pandolfi (Sara), Vinicio Marchioni (Luca), Monica Bellucci (Valentina), Diego Ribon (il professor Del Vecchio), Max Tortora (Jacolucci); produzione: Wildside;  origine: Italia 2022; durata: 124′; distribuzione: Vision Distribution.

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