Uno sguardo dal ponte di di Arthur Miller (per la regia di Massimo Popolizio)

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C’è una passione che mi è entrata dentro, come un corpo estraneo.

Una paperdoll è una bambola di carta. La puoi costruire, come fare a pezzi, in un niente. Dipende dalla mano, che fa una o l’altra azione. Importante, però, è che la mano non si affezioni, perché tagliarsi con la carta, si sa, è facile. Questione di un attimo. Massimo Popolizio prende Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller e lo porta sul palcoscenico in una versione che del teatro ha la messa in scena, del cinema il resto: tempi, luci, conduzione della scena. Ne risulta una chimera di spettacolo che ha un po’ dell’una come dell’altra arte, che ha dalla sua una tempistica invidiabile (un’ora e mezza), con un poco di corsa accelerata sul finale. Lo spettacolo è quindi ben fatto (con qualche scivolone), ma c’è un Ma. La godibilità dello spettacolo rimane legata a un profondo dubbio: se piaccia o non piaccia lo stile di Popolizio e, soprattutto, come questo influenzi non solo lui, ma pure chi lo accompagna nello spettacolo. Perché ogni buon attore ha bisogno di chi lo segua, e di chi gli vada contro, per variare i toni, per creare contrasti emotivamente fertili.

Di là dal ponte ci stanno quelli che non stanno di qua. E di qua stanno i ricchi, di là stanno i poveri, in canna. Immigrati, chi legale e chi non. Eddie Carbone è legale, anzi, è italo-americano. Vive con la moglie e la figlioccia Catherine. La ragazza ha ormai diciott’anni, vuole andare nel mondo del lavoro, divertirsi e indossare i tacchi. Il padre adottivo fissa scettico la paperdoll che si aggira per casa:

Greta Garbo, che fai su quei trampoli?

Ma arrivano i cugini dall’Italia. I cugini della moglie. Uno che ha famiglia ad attenderlo in terra sicula, l’altro è…biondo.

È biondo, ma biondo biondo!

E oltre a essere biondo, balla e canta. Una forza della natura. Tra Catherine e il Biondo inizia a esserci del tenero ed Eddie non vede di buon occhio la cosa: vuole sposarla per il passaporto americano, sostiene. Ma forse a preoccupare Eddie c’è molto di più…

È inutile elencare il pedigree di Popolizio. È l’attore, regista, narratore, insomma, è colui che può riempirti l’Argentina ogni sera per due settimane e lo può fare perché uno spettacolo, fatto finito e definito, lo sa fare. Perciò prende questa opera di Miller e ne fa una risoluzione in un’ora e mezza. Usa una scenografia abbozzata, grigia come quegli anni americani, e un impianto luci efficace. Ma è soprattutto nel taglio che dà alla natura teatrale del testo che si gioca molto: il ritmo è sincopato, spezzato, non vive il tempo del teatro bensì quello del cinema portato a teatro, e il risultato è buono, forse un po’ in corsa nel finale quando si vuole completare il lavoro, portando però a casa il risultato in un tempo, appunto, fruibile per chi al teatro è avvezzo e a chi lo è meno. C’è però un Ma, e si spieghi il Ma.

Popolizio si era presentato quest’anno all’Argentina con un altro lavoro: l’adattamento di Furore. Il risultato era molto valido, nulla da dire, anzi, basti dire che il momento più alto di quello spettacolo era Popolizio che narrava per quindici minuti il tentativo di una tartaruga di attraversare la route 66. Il risultato era semplicemente splendido. Però lì Popolizio era solo, ed era narratore. Voce unica, mille cambi e immedesimazioni. Qui invece troviamo un Popolizio attore e la differenza si sente. Non perché Popolizio non sia bravo, tutt’altro, ma perché più volte si ha l’impressione che su quel palco lo stesso personaggio di Eddie Carbone sia di troppo al suo interprete, e di conseguenza la sfera emotiva dell’italo-americano ossessionato da Catherine viene meno o la si percepisce poco rispetto ai virtuosismi vocali e dialettali – quest’ultimi a volte gratuiti. Insomma, che Eddie desideri Catherine certo lo si capisce, però non lo si vede e non si entra così in risonanza con loro, nonostante il lavoro tecnico di voce e movimenti, solenni e monumentali – più teatrali in questo caso che filmici -, sia ottimo.

Uno sguardo dal ponte per la regia di Massimo Popolizio è quindi un buon lavoro. Forte nelle scelte tecniche come nell’idea registica – lo spettacolo ha un carattere preciso, appunto quello del regista e primo attore – pecca però nel restituire quei contrasti emotivi e snodi passionali che permetterebbero una maggiore immedesimazione dello spettatore. Il cast si adegua al tono imposto dalla regia e a parte due eccezioni – i cugini italiani estremamente credibili -, sembra che sul palco manchi una presenza che possa contrastare quella di Popolizio per creare terreni di incontro o scontro fertili. Certamente, Uno sguardo dal ponte è uno spettacolo che piacerà a chi ama un teatro fatto bene – popoliziano, e quindi di parola -, meno a chi preferisce un teatro da impatto emotivo e nel quale è il personaggio, prima che l’attore, a emergere. Naturalmente, provare…vedere per credere.

In scena fino al 2 aprile al teatro Argentina, Roma.


Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller – regia Massimo Popolizio; traduzione: Masolino D’Amico; interpreti: Massimo Popolizio, Valentina Sperlì, Michele Nani, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli, Gaja Masciale, Felice Montervino, Marco Mavaracchio, Gabriele Brunelli; scene: Marco Rossi; costumi: Gianluca Sbicca; produzione: Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione; foto di Yasuko Kageyama.

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