Dune: Parte Due di Dennis Villeneuve

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Si riparte da qui. La casata degli Atreides è stata sterminata in una notte, al sorgere del sole nella polvere del deserto ci sono i loro corpi da bruciare e la casata nemica Harkonnen è salita al potere sul pianeta Dune. E l’imperatore non ha detto nulla. Ora detengono loro il controllo della Spezia, fondamentale per i viaggi spaziali. Tra i corpi arsi ne manca però uno, quello di Paul (Timothée Chalamet), l’erede degli Atreides. Con la madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson) è fuggito tra i Fremen. Affiancato dalla nativa Chani (Zendaya) tra deserti e lame, in un pianeta nel quale non si possono piangere i caduti perché

L’acqua non si dà mai via, nemmeno per i morti.

Mentre la madre – appartenente alla potente e misteriosa sorellanza delle Bene Gesserit – si reca a sud per diffondere la venuta del figlio come nuovo messia, Paul deve conquistarsi un posto nel mondo, anzi, in un mondo preciso come Dune. Rifiuta il ruolo da Madhi, rifiuta una leadership conclamata perché non ancora provata, ma deve capire chi sia e chi diventare, e farlo al più presto. Vecchi e nuovi nemici si affacciano nello spazio, l’Imperatore si sta indebolendo e mai quanto ora è necessario che lui, per se stesso e per l’universo, possa dire:

Padre, ho trovato la mia strada.

Si riparte da sei statuette agli Oscar 2022: fotografia, colonna sonora, montaggio, sonoro, scenografia ed effetti speciali. E si riparte da lì perché queste sono le categorie nel quale la pellicola di Denis Villeneuve trova la riconferma correndo sul solco da lui stesso tracciato ed estendendo l’immaginario per l’intero pianeta Arrakis, o meglio Dune, e non solo. Ai confini dello spazio. L’immaginario che da Frank Herbert era stato impresso su carta nel 1965, ora è messo pellicola e l’attenzione che viene data alla costruzione del mondo è lodevole, anzi, eccezionale: non viene posta in secondo piano rispetto all’intreccio, trova piuttosto una sua precisa ed efficace collocazione nel racconto, tant’è che la voglia di scoprire qualcosa di più su usi e costumi di un mondo inventato diventa uno dei primi moti della visione.

La creazione del contesto è quindi un pregio del secondo capitolo come lo era del primo, nonostante in quello si fosse rivelato in più occasioni una lama a doppio taglio: lo spettatore si ritrovava davanti a scene dal fortissimo impatto visivo e sonoro, ma pure vi affondava perché l’intreccio era posto in secondo piano. Questo viene evitato nella Parte Due, i nodi iniziano a venire al pettine e si vivono forti scarti che man mano aumentano la loro portata e vanno di pari passo con la crescita di Paul. Si cade così nella critica contraria: se nel primo lavoro l’intreccio latitava, qui diventa sempre più serrato, a volte divenendo sfocato per quanto riguarda i passaggi delle linee d’ombra del protagonista. Per esempio, un gradino specifico – l’effettivo superamento della linea d’ombra – viene risolto in modo estremamente rapido, quasi il personaggio fosse sfuggito allo stesso regista.

È infatti questo uno dei punti deboli del lavoro di Villeneuve: come è narrata la maturazione di Paul. E non perché venga data per scontata – sarebbe impossibile, è il fulcro del film insieme a quello più generale delle cause e forze del fondamentalismo religioso – ma perché non trova sufficiente giustificazione e indagine. L’appartenenza al genere fantasy del lavoro potrebbe scusare la semplificazione della maturazione, eppure il lavoro registico DEVE avere un obbiettivo: raccontare in modo efficace quello scatto che porta un ragazzo orfano e derubato dei titoli a diventare uomo e riconquistarsi un ruolo politico. Il compito è ovviamente difficile, ma avere una tale potenza di fuoco di maestranze e metterle solo a disposizione della creazione dell’atmosfera e non dell’ “avventura dell’eroe”, è un peccato, nonché uno spreco perché è segno di mancanza di visione registica. L’effetto sullo spettatore ne è la dimostrazione: si rimane affascinati da tutto, vi è una gioia per orecchie e occhi, ma non si entra mai in empatia con Timothée Chalamet né con Zendaya. Nonostante Villeneuve dia grande spazio a questa seconda, la loro storia d’amore rimane su pellicola e il finale ha più il sapore da serie tv che da opera cinematografica. Si vede sofferenza, non si prova.

Dune: Parte Due rimane un film da vedere – e rivedere – per lo sforzo e la riuscita cinematografica. Villeneuve esprime in quasi tre ore quale sia la forza di Hollywood: loro possono creare un intero pianeta, e dargli un suono, un’anima e una forza. Ora Dune esiste, è da qualche parte lassù, e noi sappiamo che dei vermi giganti l’attraversano e che questi vermi si possono cavalcare. Hans Zimmer ci mette poi il suo, e quelle tre ore valgono tranquillamente come una nottata in discoteca con i bassi pronti a spostarti l’auto parcheggiata fuori dal cinema.

Ovviamente, il carrozzone hollywoodiano oltre alle maestranze si porta dietro anche la sua pletora di attori conclamati, e questo non aiuta affatto, perlopiù distrae. In più occasioni prima del personaggio si vede la persona, e nel caso di Christopher Walken ci si sorprende allo stesso modo di quando s’incontra un conoscente perso di vista da lungo tempo e si prova un moto di affetto per appartenenza a un passato comune. Peccato che Walken anzitutto dovrebbe essere l’imperatore di una galassia, non il benzinaio lasciato alla pompa e ritrovato in pensione al bar del paese. Simile risposta, con minore nostalgia, si ha per Florence Pugh e Léa Seydoux – attrici la cui bravura è inversamente proporzionale alle dimensioni del budget stanziato -, ma la cui celebrità oscura la parte. Forse, il successo di Lily Gladstone in Killer of the Flower Moon – nel quale si è mangiata a colazione i due attori protagonisti – rientra in un discorso simile: di facce sconosciute ce ne è bisogno, perché possono essere chiunque prima che loro.

(Discorso a parte per Javier Bardem: lui è sempre bravissimo a non essere se stesso. E discorso a parte per Timothée Chalamet: lui non è un attore, è un’icona generazionale. Per ora. E gli si scusa tutto perché a lui si chiede proprio quello: di essere se stesso, anzitutto).

Si conclude chiedendo allo spettatore di vedere questa pellicola senza accontentarsi, ma anzi ponendosi domande. Villeneuve dimostra nuovamente di essere un buon regista per quanto riguarda la gestione delle maestranze e del prodotto, eppure manca quel passo in poi che porta dalla pellicola all’umano e che il genere giustifica forse solo in parte. Insomma, è la natura fantastica del film a porre questi limiti o è un limite registico? Chiedetevelo.

Dal 28 febbraio al cinema.


Dune: Parte Due  (Dune: Part Two)– Regia: Denis Villeneuve; sceneggiatura: Denis Villeneuve, Jon Spaihts; soggetto: dal romanzo Dune di Frank Herbert; fotografia: Greig Fraser; montaggio: Joe Walker; effetti speciali: Gerd Nefzer, Paul Lambert; musiche: Hans Zimmer; scenografia: Patrice Vermette; costumi: Bob Morgan, Jacqueline West; trucco: Judit Farkas-Arful, Kata Huszár, Daniel McGraw; interpreti: Timothée Chalamet, Zendaya, Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Austin Butler, Florence Pugh, Dave Bautista, Christopher Walken, Stephen McKinley Henderson, Léa Seydoux, Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling, Javier Bardem; produzione: Legendary Pictures, Villeneuve Films, Warner Bros; origine: USA/Canada, 2024; durata: 165’; distribuzione: Warner Bros.

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