Io, noi e Gaber di Riccardo Milani

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Qualcuno, un giorno, si occuperà di scrivere una storia di un genere cinematografico, credo di poter dire, tipicamente italiano, che in questi anni è particolarmente fiorente: mi riferisco al genere del documentario musicale, incentrato su figure a vario titolo centrali della storia della musica, del costume, del teatro dei periodo che, grosso modo, va dall’ingresso della televisione nella cultura di massa fino a oggi, ma con un focus cronologico che abbraccia in prevalenza il trentennio 1960-1990.

Solo restando agli ultimissimi anni si contano almeno i documentari su Lucio Dalla (Per Lucio di Pietro Marcello, 2021), su Paolo Conte (Via con me di Giorgio Verdelli, 2020), su Lucio Battisti (Io, tu, noi, Lucio sempre di Giorgio Verdelli e sempre 2020), Franco Battiato (La voce del padrone di Marco Spagnoli, 2020), Enzo Jannacci (Vengo anch’io, di nuovo Giorgio Verdelli, 2023). Con l’eccezione di quello di Pietro Marcello (altra categoria!) questi documentari, diciamolo chiaramente, si assomigliano un po’ tutti sul piano della struttura e del contenuto, per almeno cinque motivi. Primo: si basano tutti su materiale abbondantemente presente nelle Teche Rai, il regista ha, letteralmente, solo l’imbarazzo della scelta; secondo: convocano un numero, solitamente, sovrabbondante di testimoni; terzo: sono, nell’insieme, piuttosto privi di una loro dialettica interna: i testimoni ribadiscono, più o meno, sempre lo stesso concetto, ossia quanto sia stato importante nella storia della musica (del costume etc.), il personaggio al centro del documentario, di più: quanto egli (sono tutti maschi!) sia imprescindibile per capire non solo la storia della musica (del costume etc.) ma anche per capire la storia dell’Italia; quarto: tutti questi film obbediscono a un paradigma di mitizzazione nostalgica: quanto era tutto più bello nell’epoca d’oro in cui questi personaggi ancora erano attivi, erano vivi e quanto, da allora, il mondo, ma – di nuovo – soprattutto l’Italia da allora sia imbruttita. I latini la chiamavano laudatio temporis acti, anche perché – e potrebbe essere il quinto aspetto – tutti o quasi tutti questi personaggi sono morti, spesso sono morti prematuramente. Dei cantanti/cantautori citati l’unico ancora in vita è Paolo Conte. Gli altri invece sono tutti deceduti e il processo di mitizzazione – che l’Italia non risparmia a nessuno – già in atto, quando costoro erano ancora in vita, ha subito, all’indomani della morte, un’ulteriore accentuazione.

Tutta questa lunghissima premessa per dire che il film di Riccardo Milani, dal titolo per nulla originale di Io, noi e Gaber, presenta tutte le caratteristiche appena segnalate e le presenta al massimo grado. Intendiamoci: a parere di chi scrive Giorgio Gaber (1939-2003) è stata una figura molto importante, capace come pochissimi altri di trasformarsi in modo radicale da cantante rock and roll, da cantante melodico, da cantore della milanesità, da star televisiva a uomo che con coraggio  abbandona la televisione o quasi per dedicarsi, forse per inventare (insieme all’amico e collaboratore Sandro Luporini [1930-]) un genere, quello del teatro-canzone, che in Italia prima non esisteva, ma sarebbe stato bello, forse, che il film avesse anche saputo porsi in modo leggermente più complesso, più dialettico di fronte al proprio personaggio, per esempio andando più a fondo nell’analizzare o mettere in discussione quello che, almeno a mio avviso, ha finito per essere un certo qual manierismo in cui negli ultimi anni Gaber era caduto, dando vita per quasi due decenni,  every given year, ogni sacrosanto anno a un nuovo spettacolo, con l’ambizione e la presunzione di aver qualcosa di nuovo da dire. Insomma ci saremmo aspettati una visione un po’ più critica sul personaggio, divenuto in qualche modo prigioniero della sua maschera di uomo non allineato. Giusto per tornare sull’assenza di dialettica, che, come si diceva, è – a quanto pare – una delle caratteristiche imprescindibili di questo tipo di film.

Detto questo, provo a raggruppare i testimoni convocati, venti in tutto. Innanzitutto i parenti: al primo posto la figlia Dalia Gaberščik (1966) che funge, diciamo così, da guida all’interno del film; con lei brevemente il marito Roberto Luporini, e, un po’ più presente, il loro figlio Lorenzo, dunque il nipote di Giorgio; solo, di passaggio, e praticamente muta Ombretta Colli, la moglie, celebre dapprima come Miss Italia e negli anni ’90 fra le primissime militanti di Forza Italia, di cui diventerà parlamentare. Il secondo gruppo è costituto dai milanesi: Michele Serra, Gino e Michele, Claudio Bisio, Paolo Jannacci, il figlio di Enzo, Massimiliano Pani, figlio di Mina; i due figli piuttosto famosi di padri e madri famosi fungono da tramite con la terza categoria, che sono i colleghi: Gianni Morandi, Lorenzo Cherubini alias Jovanotti, Ivano Fossati, Mogol; poi i collaboratori storici: a cominciare da Sandro Luporini, novantatreenne lucidissimo, Paolo dal Bon (presidente della Fondazione Gaber), Gianfranco Aiolfi, che negli spettacoli di teatro-canzone lo accompagnava occupandosi delle basi musicali fino al fotografo Guido Harari, che seppe immortalare Gaber in fotografie particolarmente iconiche; il quarto gruppo riguarda personaggi della televisione: Fabio Fazio, Vincenzo Mollica, il giornalista Massimo Bernardini. Ultimo gruppo che ai miei occhi è il più interessante: i politici ovvero Mario Capanna e Pierluigi Bersani che, insieme a Serra, hanno forse le cose più interessanti da dire. Quel che da quest’elenco quasi completo colpisce è la pressoché totale assenza di giovani, ciò che verosimilmente testimonia l’assenza di una legacy gaberiana nel mondo della cultura, della canzone, del teatro italiano. Non c’è questa eredità o non la si è voluta trovare? Non può bastare un unico giovane, l’attore Francesco Centorame, a rappresentare le nuove generazioni. Di una risposta a questo quesito il film ci resta di fatto debitore, forse perché prigioniero del paradigma nostalgico di cui si diceva.  Riccardo Milani (di cui avevamo preferito il docu su Gigi Riva) prova a surrogare quest’assenza tramite un autentico profluvio di location: il regista non bada a spese, le città in cui si è girato non si contano, molti testimoni, soprattutto gli artisti, sono stati collocati dentro i teatri delle loro città: Morandi al Duse di Bologna, Fossati al Teatro Nazionale di Genova, Gino e Michele allo Zelig, una valanga di teatri milanesi etc. etc. Ma la ridondanza, anche nella durata (135 minuti!) non basta.

In anteprima alla Festa di Roma
In sala 6, 7, 8 novembre 2023


Io, noi e Gaber  – Regia: Riccardo Milani, sceneggiatura: Riccardo Milani, Francesco Renda; fotografia: Saverio Guarna; montaggio: Francesco Renda; produzione: Atomic, Rai Documentari, Luce Cinecittà; origine: Italia 2023; durata: 135′; distribuzione: Lucky Red.

 

2 thoughts on “Io, noi e Gaber di Riccardo Milani

  1. Bellissimo Articolo che analizza in profondita’ questo documentario e di questo di ringrazio molte sei stato molto esaustivo e sono daccordo con te su tutto,Ma su una cosa non la penso come te quando dici che negli ultimi hanni era caduto nel manierismo e per come la vedo io non la pensiamo nello stesso modo.Ma l’articolo cha hai scritto resta straordinario.

  2. Altra cosa che non mi piace e quando dici che era diventato Ambizioso ma credo sia giusto per qualsiasi artista se vogliono avere successo ed essere ricordati,e anche altri lo sono stati molto piu’ di gaber. GABER voleva passare alla storia e non alla cassa lo disse lui in una intervista con gianni mina’ ,Ma dire che era diventato presuntuoso quello mi dispiace ma non e’ vero era davvero una gran bella persona e non era per niente presuntuoso,io che ho avuto la fortuna di conoscerlo la prima volta nel 1991/92 e anche dopo posso assicurarti che non era presuntuoso per niente.Sembra che ti scagli contro gaber per qualche motivo che ancora non mi e’ chiaro del tutto,te lo dico per discutere ma senza volere offendere nesuno.

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