Mai come nei nostri tempi stiamo assistendo a una tendenza assai vistosa alla ripresa, al riciclaggio, al remake, alla variazione soprattutto nel cinema statunitense che certamente ha vissuto periodi migliori, più originali. Se si eccettuano grandi singoli personaggi (registi/produttori) sulla cresta dell’onda da decenni, in alcuni casi da molti decenni (un caso fra tutti, Steven Spielberg, ma pensiamo ai Coen, a Tim Burton, a Wes Anderson), il cinema americano appare decisamente in crisi. Prendiamo, ad esempio, i candidati al Golden Globe. Nella sezione dei film drammatici abbiamo due (per carità interessantissimi) sequel: Avatar 2: la via dell’acqua e Top Gun, il biopic dedicato a Elvis, il film, visto a Venezia con Cate Blanchett protagonista (Tár) e appunto l’autofiction di Spielberg. Se andiamo alla sezione commedie e musical – la distinzione non mi è affatto chiara – troviamo Triangle of Sadness (commedia?), Babylon di Damien Chazelle (che non si è ancora visto), Everything Everywhere all at once, il film di Martin McDonagh ambientato in Irlanda (The Banshees of Inisherin commedia?), presentato a Venezia e per finire il secondo film di Rian Johnson (1973) della serie Knives Out, intitolato Glass Onion: A Knives Out Mistery.
Johnson non fa mistero del fatto che il suo modello conclamato è Agatha Christie (1890-1976) che anche grazie a Kenneth Branagh negli ultimi anni è tornata in auge (due adattamenti rispettivamente nel 2017 e nel 2020). Ma mentre Branagh attua dei classici remake, Johnson ripropone e varia il modello o meglio un certo modello Christie. Il modello che gli interessa è quello genericamente sussumibile alla voce “whodunit”: ambiente chiuso (villa, treno, albergo) in cui tutti hanno abbondanti motivi per essere colpevoli, il detective, genialissimo, a poco a poco rivela e scopre con una oculata mistura di deduzioni disponibili anche allo spettatore e intuizioni precluse a chi vede, volte, queste ultime, per l’appunto a sottolineare l’originalità del detective, che ha verso la fine il proprio momento clou, il proprio showdown in cui fa lo spiegone. Detto in parole povere per fare un film alla Agatha Christie ci vogliono tre elementi: il detective particolarmente connotato sia sul piano fisico che su quello psicologico (l’attore giusto/l’attrice giusta), un ambiente chiuso e tanti personaggi (se possibile interpretati da attori fra noti e molto noti).
Nel suo primo film, Knives Out, datato 2019, uscito in molti paesi al cinema (ma non in tutti, in Germania, ad esempio, direttamente in digitale) e poi, in piena pandemia, rilanciato dalle piattaforme, Johnson mostrava di essere ancora molto legato al modello fin nell’ambientazione, ovvero il Massachusetts, vale a dire quando di più english gli USA avessero da offrire (non a caso per quella zona degli States si parla di New England). Merito principale di quel film è, a mio avviso, la completa rinegoziazione post-Bond di Daniel Craig, il lancio nel ruolo di co-protagonista di Ana de Armas, in un ruolo diciamo così etnico che attinge in qualche misura alla sua biografia e una serie di attori medio-grandi che danno il meglio di sé da Jamee Lee Curtis con gli occhialoni che sembrava il babbo sul motoscafo in Some Like it Hot a Michael Shannon fino ad arrivare a Christopher Plummer che poco più di anno dopo ci avrebbe lasciato. L’altro aspetto convincente del film era il riutilizzo di una tecnica cinematografica tipicamente postmoderna che, al più tardi da Tarantino in avanti, è diventata quasi classica, ovvero la ri-narrazione del medesimo episodio da diversi punti di vista, ciò che – e qui forse si vede la differenza con l’operazione meramente nostalgico-citazionista di Branagh – denotava un buon livello di originalità da parte del regista che, non dimentichiamolo, è anche sceneggiatore, ciò che permette di arrischiare il suo inserimento in una tradizione che, pur muovendosi nell’ambito di una cinematografia di genere, presenta una qualche ambizione con molte virgolette “autoriale”. Regia, sceneggiatura, prestazioni attoriali finivano per confinare l’elemento più propriamente giallo, il “whodunit” in quello che, in fondo, esso dev’essere, ossia una questione tutto sommato poco interessante.
Knives out ebbe un successo clamoroso, riprendendo abbondantemente, per le ragioni suddette, le spese sostenute. Talché quando, non molto tempo (siamo nel 2020, in piena pandemia che nel film viene abbondantemente tematizzata) Johnson intese proseguire su questa falsariga (non si tratta di un sequel, attenzione, malgrado il titolo, malgrado Craig, malgrado il “modello” Agatha Christie, vedi sotto) poté addirittura permettersi di dar vita a un’asta fra le piattaforme: per la modica cifra di 469 milioni di dollari Netflix è riuscito a strappare il film ad Apple TV+ e ad Amazon Studios. A parte qualche breve passaggio ai festival (Toronto, Londra) il film stavolta è uscito solo su piattaforma, a partire dall’antivigilia di Natale, il 23 dicembre, ottenendo in tutto il mondo un numero strabiliante di visualizzazioni.
Non starò a raccontare la trama, lo ha – almeno in parte – fatto qui su Close-Up Alessandro Ricci, stroncando il film. Cercherò di dimostrare perché, almeno a mio modo di vedere, il film è interessante e per certi aspetti anche coraggioso.
Johnson compie una totale decostruzione del modello Agatha Christie e lo fa su più livelli: 1) con due sole eccezioni (di nuovo Craig e Edward Norton, nel ruolo del miliardario alla Elon Musk) rinuncia ad attori davvero famosi e ricorre a personaggi celebri in modo straniante solo attraverso una pletora di camei (che ricomprendono, ad esempio, Angela Lansbury nella sua ultima apparizione, ma solo via Zoom, siamo, lo ricordo, in piena pandemia, ma anche Serena Williams, Ethan Hawke, il violoncellista Yo Yo Ma etc., Hugh Grant che fa il coinquilino di Craig); 2) mette in crisi sul nascere il modello narrativo di partenza, facendo risolvere in trenta secondi a Daniel Craig, alias Benôit Blanc la cena con delitto architettata sull’isola greca dal miliardario; 3) rende tutta la questione del whodunit ancora più insignificante di sempre; 4) aggiorna con ironia ed autoironia lo statuto dei personaggi, tutti frutto di una fatua società dello spettacolo, del tutto privi di valore, di sostanza. Si potrebbe obiettare che è un gioco facile sparare a zero contro questi personaggi di plastica, destinati comunque a durare lo spazio di un mattino, ma bisogna, anche solo su un piano registico, saperlo fare e i minuti introduttivi in cui i personaggi ci vengono presentati tutti rappresentano una notevole prova di ritmo cinematografico, raddoppiata dal contemporaneo convergere di tutti sul molo di Spetses, l’isola dell’Egeo in cui il film è ambientato; 4) il film presenta una quantità spaventosa di citazioni, di metalivelli, decifrabili solo dopo reiterati visioni, si tratta di un film ipercolto, che attinge com’è ovvio soprattutto all’archivio della cultura pop, fin dal titolo che è la citazione di un celebre testo dei Beatles contenuto nel White Album, in cui Lennon e McCartney si prendevano gioco della società dello spettacolo e del tentativo di trovare connessioni fra le loro vita e le loro canzoni; 5) la già eccellente prestazione di Daniel Craig nel primo film è ulteriormente migliorata, una via di mezzo fra Jacques Tati e Cary Grant, non mi stupirei che si prendesse l’Oscar. Non a caso, nell’accordo con Netflix (vi sarà un terzo film) è prevista una condizione: la presenza di Benôit Blanc.