Premessa: forse questa edizione quasi centenaria – siamo alla numero 96- degli Academy Awards ha dimostrato, più che alcune delle ultime, un criterio nella distribuzione dei premi; al di là del valore del singolo film (una questione che, come sappiamo, in manifestazioni simili, ha un significato sempre molto relativo) si può marcare una linea precisa di differenza e congiunzione tra la ridefinizione di un immaginario collettivo e la riaffermazione dell’ industria hollywoodiana (anche nell’ assorbire e metabolizzare le diverse cinematografie straniere), estro autoriale e esigenze di mercato, l’attenzione, richiesta e scritta tra l’ altro nero su bianco sul regolamento, per l’ inclusività e qualche scelta più (programmaticamente) azzardata.
A fare strike è dunque Oppenheimer diretto da un regista-autore che almeno dall’ inizio del nuovo millennio e anche prima( il lavoro sul tempo comincia ad esempio da Memento, 2000) sta riscrivendo l’estetica e il racconto del cinema di genere attraverso una trasversale sensibilità che tiene insieme le ragioni dello sguardo e quelle dell’ intrattenimento; quel Christopher Nolan che si è visto incoronare Best director proprio da Steven Spielberg, in un momento che molti hanno voluto vedere come un passaggio di testimone all’interno di una royalty dove si incrociano creatività e potere, con un salto generazionale che includerebbe tra i due almeno anche un’altra maestosa figura che risponde al nome di James Cameron. Ma a parte questo gioco di transfert generazionali di cineasti tycoon ( senza dimenticare che affianco e anche davanti a Nolan, come nel caso del discorso di ringraziamento per il miglior film, c’è Emma Thomas, compagna di vita e di cinema), è chiaro come abbia vinto uno dei due film – con Barbie di Greta Gerwig -evento della scorsa stagione cinematografica, quella che ha fatto ballare, chissà se per una sola estate, analisti, esperti e semplici appassionati sul ritorno in massa della gente nelle sale dopo il blackout della pandemia.
E tra quel atteso e inaspettato connubio, deflagrante colosso di lungimirante marketing ,ribattezzato a furor di meme social barbenheimer, la parte più pesante dei riconoscimenti è toccata alla metà della mela più seria , impegnata, e, aggiunge chi scrive, più pregnante e rilevante da un punto di vista di linguaggio cinematografico e non solo di operazione o di progetto. E se Barbie annulla il proprio potenziale critico e satirico contro la società patriarcale-capitalista nel mettere il marchio Mattel in bella mostra fin dai titoli di testa, e nell’essere pervaso da un’ aria da plastificato spot infarcito di messaggi progressisti astutamente posizionati (con l’effetto paradosso di conservare e anzi di incrementare lo status della merce bambola), Nolan prova, e in gran misura riesce, a effettuare una più delicata e problematica transizione: dal processo anticipatore e visionario del suo scienziato anti eroe su quella invenzione-la bomba- con il non secondario effetto collaterale di una catastrofe nucleare reiterabile nel tempo, al processo psicotico e allucinato di una colpa e di una visione parziale.
Una parzialità di percezione ottica e acustica, di testimonianza rimossa e rivendicata, di manipolazione e mistificazione che attraversa alcuni degli altri riconoscimenti chiave: miglior sceneggiatura originale, in una delle rare affermazioni di script in lingua non inglese, alla coppia, anche questa artistica e di vita, Justine Triet–Arthur Harari per Anatomia di una caduta, diretto da Triet, probabilmente la più esemplare opera dell’ anno per chirurgica capacità di analizzare i meccanismi della dicotomia menzogna/verità e dell’omissione sulle ceneri ancora fumanti e sanguinanti del cadavere coppia; miglior film internazionale a La zona d’interesse dove Jonathan Glazer mette in scena il fuori campo visivo e il primo piano sonoro di un’ alienata falsa coscienza, della quale gli aguzzini nazisti del campo di concentramento sono l’ ottuso e atroce raccordo in reverse, il negativo a colori desaturati da cui farsi ipnotizzare staticamente.
Per bilanciare una cosi variamente declinata esplorazione dell’ambiguità, ecco il più rassicurante premio alla sceneggiatura non originale di American Fiction, con una programmatica e cerchiobbotista scrittura dell’ esordiente Cord Jeferson tra dissacrazione e convenzione, meta-racconto e narrazione testuale, sui cliché e gli stereotipi dentro, fuori e intorno la rappresentazione della comunità afroamericana. Sarebbe stato troppo premiare anche in questa categoria La zona d’interesse , che vince comunque un altro Oscar per il suono che vale come quello, se non di più, per la sceneggiatura vista la rilevanza dal punto di vista narrativo, evocativo, simbolico della partita di agghiaccianti sussurri e grida. Non si voleva forse troppo celebrare una forma di racconto che è frastornante esperienza sensoriale prima che didascalica e rassicurante illustrazione di una boutade politicamente (s) corretta.
Un segno altalenante che rimane anche nelle scelte per le quattro interpretazioni, a cominciare da quelle maschili: l’intensa maschera indecifrabile e impermeabile, perduta in un tormento remoto o avanguardistico, di Cillian Murphy/Robert Oppenheimer in opposizione all’ istrionico piglio da gran mattatore camaleonte del suo “avversario” Robert Downey Jr/Lewis Strauss (da cui esce penalizzata la slabbrata e tenerissima umanità del piccolo grande uomo Paul Giamatti, candidato in The Holdovers-lezioni di vita).
Tra le attrici non protagoniste ha invece la meglio il corpo reale e le emozioni a fior di pelle di Da’ Vine Joy Randolph, per il film di Alexander Payne con Giamatti, mentre è totalmente performativo e spregiudicato , ma molto aderente a un canone di bellezza, seppur verniciata con una patina di eccentricità, quello di Emma Stone Bella nomen omen di Povere creature! : in questo caso il “problema” è però lo sguardo dell’ universalmente e unanimemente celebrato Yorghos Lanthimos, sul quale sia consentito avanzare dubbi e perplessità; perché che questa performance di emancipazione, libertà e presa di coscienza femminile debba passare attraverso un’ottica così grottesca, sbilenca e formalista lascia un certo sconforto sul piano delle intenzioni, e in parte su quello dei risultati. Ci si domanda se non si muova tutto ad un livello di superficie e dì gioco mortifero più che gotico, tanto che l’Academy, a parte la Stone, premia tutto l’apparato decor (scenografie, costumi, trucco). Quelle categorie in cui avrebbe dovuto vincere magari Barbie, se la bambola in questione avesse avuto un allure più sofisticato e artistoide, e meno sfacciatamente pop, come Bella/Emma.
Gli Oscar mantengono così il loro tratto distintivo come termometro di gusti, tendenze, direzioni e mutazioni del mainstream; un perimetro entro il quale una certa idea più viscerale, classica e cinefila di cinema d’autore (Killers of the flowers moon è il terzo film di Martin Scorsese con dieci o più nomination e nessuna vittoria, per non parlare di un’ opera monumentale, struggente e personale come il Ferrari di Michael Mann completamente esclusa dalla gara) non è più una presenza forte o vincente.
Il punto cruciale comunque è che al computo finale dei premi ne manca uno che quest’anno si sarebbe dovuto istituire ad hoc: il body of work , ovvero per il complesso dell’opera, di un’attrice e di una performer che come nessuna/o ha saputo rappresentare la continuità fisica, psicologica, emotiva ed etica di individualità inghiottite dalla voragine del male assoluto o vaganti a vuoto tra le lande dell’ isteria e della psicosi: si tratta di Sandra Hüller, che sia la faccia feroce e grottesca del nazismo dalle ispirazioni borghesi (La zona d’interesse) o l’ egotica intellettuale dalla lingua solida e dal retroterra altrettanto spietato e non compassionevole (Anatomia di una caduta). È lei che ci riporta sgomenti all’ interrogativo essenziale ed esistenziale della bella canzone di Billie Eilish che ha vinto l’ unico Oscar del quale Barbie era davvero meritevole: What I was made for?, per cosa siamo stati creati.
Domanda che si perde nella celebrazione di questo rito centenario e dei suoi idoli chissà quanto fragili fuori e dentro gli ormai multiformi schermi e immaginari.